“Odradek”, per allontanarsi da una tecnologia portata all’assurdo serve uscire a riveder le stelle
Al Teatro Sociale ottima prova di Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia della compagnia Menoventi, capaci di muoversi sul confine tra umanità ed alienazione, ironizzando sulla tecnologia e sottolineando l’importanza delle relazioni
Marco Zonca |
Bergamo News |
07/02/2025
Bergamo. “Un tizio è caduto in un pozzo, perché voleva conoscere le stelle”. Una caduta rovinosa dopo uno sguardo verso l’alto, verso quelle stelle che portano ai desideri autentici. Cadute rovinose, ma anche cautamente contemporanee, sono quelle di “Odradek”, spettacolo della compagnia faentina Menoventi, ideato da Consuelo Battiston e Gianni Farina, andato in scena giovedì 6 febbraio al Teatro Sociale, all’interno del programma della Stagione di Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti.
“Odradek” (una produzione Menoventi/E Production, Ravenna Festival, Accademia Perduta/Romagna Teatri, OperaEstate Festival Veneto/CSC in collaborazione con Masque Teatro) è una fiaba contemporanea, che racconta di desideri esauditi in maniera istantanea, desideri effimeri o duraturi, che definiscono (ancora) lo scarto necessario tra l’uomo e la macchina, tra l’automazione e la relazione. Protagonista è M (ben interpretata da Consuelo Battiston), una donna ordinaria, con longuette bianco e coda di cavallo, che vive una vita abitudinaria. Nella sua casa, simmetricamente asettica, ogni suo piccolo desiderio viene esaudito in maniera istantanea, ancor prima di poter essere pensato. Il tutto grazie ad Odradek, un’azienda di ultima generazione che lavora nel settore consegne, in grado di recapitare a casa prodotti ordinati online, ma anche tutto ciò di cui si ha bisogno senza averne fatta espressa richiesta. Così, subito dopo un bicchiere rotto, ne viene recapitato uno nuovo dal corriere espresso Q (un ottimo e “sintetico” Francesco Pennacchia, con una classica uniforme da fattorino), con il quale inizierà un rapporto capace di scavare nel grigiore asettico e calcolato della quotidianità per ritrovare, di nuovo, una minima forma di emozione umana.
C’è Q infatti tra M ed Odradek, una sorta di intelligenza artificiale che prende spunto da una creatura di un racconto di Kafka (“Il cruccio del padre di famiglia”), un rocchetto di filo, incapace di rispondere a domande complesse, combinato ad un monito di Gunther Anders, la sua “vergogna prometeica” di un uomo le cui azioni non riescono più a stare al passo di un mondo “come macchina”.
Un processo meccanico che si ritrova appunto nei metodi della Odradek, ma anche, e soprattutto, nelle azioni dei due protagonisti sulla scena. M e Q sembrano muoversi infatti sul confine tra umanità ed alienazione, dati da una meccanica reiterazione di scene e dialoghi (una delle cifre stilistiche di Menoventi), parte per il tutto di una realtà ormai deformata e meccanizzata, in cui ogni slancio sembra essere bandito. Si sorride, con “Odradek”, spettacolo capace di arrivare all’assurdo kafkiano (appunto), ponendo allo stesso tempo una riflessione sagace ed ironica sulla nostra contemporaneità. Una società contemporanea improntata sulla produzione e sul consumo, un consumismo sfrenato “a tempo zero”, narrata da Menoventi sotto forma di ipertrofia tecnologica, che l’uomo sembra ben disposto ad accettare, complice forse un vuoto complesso da colmare.
La vita di M è sostanzialmente solitaria ed abitudinaria, una tranquillità alla quale però non sembra trovare uno scopo. Una monotonia angosciante, che evita di affrontare anche il senso di responsabilità, demandando tutto alla tecnologia. Oggetti tecnologici che, nel loro esserci, prendono vita e prendono possesso della propria esistenza, al contrario, paradossalmente, di M. La scena mostra un interno domestico, con un grande divano ed una televisione rumorosa. Le pareti, con colori saturi ma artificiali, rosse e azzurre (le scene sono di Andrea Montesi e Gianni Farina), sembrano rimandare a colori espressionisti o alle opere di Edward Hopper. Uno spazio statico che si anima grazie alle luci (sempre disegnate da Gianni Farina), in particolare ad un reiterato guasto elettrico, che l’apparentemente banale “ci dev’essere un contatto” pronunciata da Q, rimanda ad una desiderata possibilità di relazioni.
In “Odradek” sembrano proprio gli oggetti, in un primo momento, gli “organismi senzienti”, la merce desiderata capace però di colmare i vuoti, ma anche di dare consigli. Sono le parti animate, paradossalmente, quelle più vive, in grado di trasformare il suono di un campanello in un cortocircuito che da elettrico diventa relazionale. Importante in tal senso sono le musiche ed il sound design di Andrea Gianessi, capaci di generare un’angoscia che non esplode ma che si annida nei gesti e nei suoni.
D’altra parte, sono proprio gli oggetti ad essere vero desiderio (in)espresso della nostra contemporaneità: aspirapolvere da cullare, pezze affettive di desideri inespressi. Desideri che vengono esauriti velocemente (ed efficacemente) se si tratta di oggetti materiali, nemmeno calcolati se si tratta dell’umano.
Il desiderio comune al quale “Odradek” tende è quello allora di un ritorno alla relazione, ad un uomo che possa tornare ad essere sé stesso, non più consapevolmente dipendente dalle macchine. Un ritorno faticoso, per il quale è impensabile ascoltare audio vocali in 2X, perché serve impegno, costanza e dedizione. Un desiderio autentico, al quale tendere, per un ritorno alla relazione ed alle emozioni. Un desiderio necessario, per il quale però non è possibile guardarsi le punte dei piedi, ma serve alzare lo sguardo, per tornare ad ammirare le stelle. “Se si accendono le stelle, vuol dire che qualcuno ne ha bisogno”. Un bisogno di desiderare ma anche, togliendosi dall’asfissia del possesso a tutti i costi, di ammirare la bellezza, anche a costo di cadere nel pozzo.