Messaggio ai postumi
Ilaria Cecchinato, Giulia Damiano, Francesca Lombardi |
Romagna in Scena |
04/10/2021
«Voi che restate siate felici». Così Vladimir Majakovskij conclude la sua lettera d’addio, trovata di fianco al suo corpo il 14 aprile 1930. Il grande poeta, il rivoluzionario che odiava i pettegolezzi, si spara con un colpo di pistola al cuore nella sua camera di Mosca, dopo aver discusso con la sua amante Veronika Vitol’dovna Polonskaja, detta Nora. Le circostanze però risultano sospette: che cosa è successo veramente quella mattina? Chi c’era nella stanza insieme a lui?
Il defunto odiava i pettegolezzi di Menoventi, basato sull’omonimo romanzo di Serena Vitale, è la ricostruzione degli ultimi momenti di vita del poeta, in cui lo spettatore – attraverso un meccanismo intricato e frammentato – viene accompagnato in un viaggio all’interno delle varie versioni dell’accaduto.
Lo spettacolo ripropone infatti la medesima struttura del libro di Vitale, che ricostruisce il mistero attorno al “caso Majakovskij” per frammenti di dati e ipotesi. Scene, testimonianze e interventi degli attori sono introdotti da cartelli e qualche proiezione che rimandano alla grafica degli anni ‘20, così come l’estetica, l’utilizzo dello spazio e alcune scene recitate fronte pubblico in proscenio ricordano il teatro degli anni ‘30. A governare il montaggio è la Donna Fosforescente (Consuelo Battiston) proveniente da un lontano futuro, la quale manovra spazi e tempi, riavvolge o mette in pausa alcuni passaggi della vicenda, commenta i fatti e interroga testimoni.
È curioso come questo meccanismo in cui la temporalità è manovrata e manipolata a proprio piacimento – peculiarità della regia degli ultimi lavori di Menoventi – incontri anche le ultime produzioni del poeta forti di rimandi al viaggio nel tempo e destinati agli interlocutori del futuro.
Lo spettacolo, infatti, si muove bene nello spazio, ma è come se a reggere le fila di tutto sia proprio il Tempo: è lui a divertirsi a sconvolgere le logiche, a confondere lo spettatore con un calendario, un oggetto fisico sulla scrivania che va e viene, asincrono rispetto al tempo emotivo; un funzionale e immersivo meccanismo di nodi e riavvolgimenti che quasi mette in secondo piano l’esigenza dello spettatore di scoprire la verità, la direzione della vicenda. D’altronde,
come non si può parlare di una verità, di una storia, non si potrebbe neppure considerare un solo tempo. I tempi sono più di uno – direbbe Bergson, o anche Einstein – , sono talmente tanti e relativi che potrebbero anche non esistere, se non per necessità dell’essere umano di organizzarsi e scandire la propria esistenza. Così Majakovskij appena prima di morire sceglie di rompere i muri della convenzione temporale, dell’ordine stabilito: parla alla gente del futuro.
«Voglio parlare direttamente io ai posteri, prima che loro parlino di me». Il poeta gioca d’anticipo rispetto alle persone del domani, prendendo la prima parola su di lui anche oltre lui, quando a subentrare è ciò che palesa la necessità di concepire il tempo per i viventi: la memoria.
«Resuscitami! Voglio la vita non vissuta», un po’ Foscolo nel considerare le tombe, la memoria dei morti, come cinghia di trasmissione ultratemporale, testimone di incontenibili ideali, specie tramandati in versi, poesia. E perché dalla memoria, dalle idee consegnate, non affiorino sole illusioni, mantenere la consapevolezza del presente.
Visto al Teatro Diego Fabbri di Forlì il 2 ottobre 2021