Menoventi, L’uomo della sabbiaMenoventi, L’uomo della sabbiaMenoventi, L’uomo della sabbia
Lorenzo Cascelli |
NUCLEO art-zine |
19/09/2014
Poderoso è l’aggettivo adatto per descrivere questo «capriccio alla maniera di Hoffmann» o, più semplicemente, questa inquietante e minimale riflessione sui meccanismi della cornice teatrale e del montaggio, spazio interstiziale durante il quale le scene de L’uomo della sabbia vengono smontate e rimontate mediante la destituzione del concetto di loop e del suo eterno ritorno dell’uguale.
La struttura drammaturgica del lavoro di Menoventi si alimenta concettualmente di questa complessa circolarità mancata in cui le ripetute situazioni si modificano di volta in volta e al cui interno le identità dei protagonisti si sdoppiano, si scambiano e si raddoppiano condensandosi in una sorta di luogo privo di qualsiasi logica cognizione spaziotemporale. Claudio, l’uomo mangia banane, chi altro è se non un nomade della rappresentazione che vaga, errando, in questa pluralità di mondi condivisa dai protagonisti? Uno spazio multidimensionale che raffigura, in realtà, la mente di Nataniele: una fornace labirintica in cui si fondono eventi della vita quotidiana – piano esterno – e pulsioni psichiche – piano interno –al limite tra l’ossessione paranoica e il disvelamento di una terribile verità: chi è Coppola? Chi è Coppelius?
«Questo Capriccio è, prima di tutto, un labirinto. È un gioco di scatole cinesi, una narrazione senza fine in cui perdersi. È il tableau vivant di una natura morta».
Il perturbante, lo spaesamento verso ciò che interpretiamo come familiare, sia esso un conglomerato di personaggi o situazioni, si rafforza grazie all’irruzione dell’elemento sconosciuto, Olimpia, la figlia del dottor Spallanzani, vera manna dal cielo per le turbe del contemplativo Nataniele. Il meccanismo, che fino a quel momento aveva vissuto sul paradosso e la bizzarria degli accadimenti, si trasforma così in un vortice performativo impregnato di una fortissima coazione a ripetere – il sipario si apre e si chiude a velocità altissime per permettere la riedizione della scena – che coinvolge tutti i protagonisti – da segnalare la bravura degli attori in scena – e in cui Olimpia e Nataniele finalmente si conoscono.
Se da una parte la capacità di comprensione dello spettatore è incredibilmente messa a dura prova dalla intensa stratificazione delle possibilità portate in scena, dall’altra Menoventi ci rammenta che la rappresentazione è prima di tutto un gioco, anche se sadico nei confronti di Nataniele e dell’impero della sua mente – citazione volutamente lynchana –, di cui noi siamo spettatori di passaggio e in fondo compiacenti. L’epicità del loop si trasforma così in tragicità della morte: un puro e affascinante “capriccio”.