I Menoventi e il periteatro

“Menoventi” è il nome dell’ennesima giovanissima compagnia teatrale residente nella regione italiana più fertile per quanto riguarda il teatro di ricerca: la Romagna. Eppure, a guardare i loro spettacoli, non si può dire che i Menoventi siano frutto di filiazioni o di imitazioni o di suggestioni di quelle sperimentazioni ormai storiche; e non si può nemmeno affermare che il territorio di residenza li abbia viziati o favoriti. Anzi, è stata proprio la mancanza di mezzi e la durezza del clima a decidere il loro nome di battesimo e di battaglia, che non vuole dire under 20 e quindi annunciare una nuova generazione teatrale, ma vuole esagerare i venti gradi sotto zero del freddo sofferto nella loro primitiva sala prove, a Faenza. Nel nome spesso si cela un destino o, nel caso dell’arte, una scelta di stile perfino inconsapevole. E in effetti “il freddo” è la prima  la più vistosa caratteristica dei Menoventi: non soltanto colora il loro humourma condiziona anche il loro amore per il teatro. Un amore glaciale che ha unito i tre attori fondatori (Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele) e li ha spinti verso l’esplorazione delle zone polari dell’arte scenica: non le oscure liminarità della sua profondità ma i limiti abbaglianti della sua superficie… dove l’incontro orizzontale e speculare con il pubblico diventa tanto ovvio quanto accecante. In breve, a ripercorrere fin qui la loro domanda di teatro e la loro offerta di spettacoli il freddo lo si vede nella nudità delle loro installazioni (scenografie?), nella frigidità delle impostazioni (recitazione?), nella lucidità delle proposizioni (storie?). E così dall’altra parte – cioè dalla nostra parte di spettatori – la temperatura rigida dei loro spettacoli ci tiene svegli e allarmati, senza mai quel momento di calma e di caldo in cui il compiacimento per il nostro ruolo si traveste da gradimento per il teatro. Fa troppo freddo e non ci si dà pace, tanto che il “ci piace” dell’applauso finale è tanto spontaneo quanto estorto, come dopo un assedio che ci ha stregati ma ci ha anche stremati. È anche questa un’esagerazione, è vero, ma è per far capire che nel teatro dei Menoventi non siamo al livello delle freddure e delle assurdità; e per di più – a guardar bene e a guardare soltanto – lo spettatore non troverà feste per la sua intelligenza, giacché non ci sono enigmi da sciogliere né provocazioni in cui ricoverarsi: sia l’uno che l’altro – ricovero o scioglimento – darebbe infine al pubblico il calore e magari il conforto di una riconciliazione finale. No, la dimensione e il fastidio del freddo procede fino a un acme in cui avviene la nostra resa, incondizionata e ammirata.
Ma perché mai? E per che cosa?
Non c’è gusto e non è giusto descrivere le loro rappresentazioni: si tratta per lo più di situazioni di imbarazzo e di impotenza dell’attore e di minaccia e interdizione dello spettatore. Per fare degli esempi, in Postilla uno spettatore per volta è ammesso in un singolare percorso di visioni, dopo aver firmato la vendita della sua anima al diavolo; in Invisibilmente due maschere di sala continuamente rinviano per motivi tecnici uno spettacolo che non avrà luogo; in Perdere la faccia si introduce e propone incessantemente la visione di un video che non c’è… E se il loro ultimo spettacolo L’uomo della sabbia si propone come una costruzione capricciosa più complessa (“alla maniera di Hoffmann”, recita il titolo), in realtà la sua solidità è soltanto apparenza, che frana continuamente su se stessa fino a sprofondare dietro incessanti chiusure di sipario. Ma raccontate così le loro pièces sembrano scherzi, mentre al contrario hanno lo spessore e arrivano al vertice di giochi d’attore sempre più raffinati ed esasperati, che si spendono e persino si sprecano in una relazione con lo spettatore tanto ridicola quanto angosciosa. Può sembrare ovvio: in effetti non si sa che pensare difronte ad attori che non sanno che fare, ma la loro coscienza della vanità e sapienza della banalità rende evidente la nostra insipienza e la nostra inutilità. Insomma, che ci stiamo a fare (o a pensare) a teatro? Perché anche in quello dei Menoventi c’è pur sempre un testo e un’azione, una situazione chiara e uno svolgimento ordinato. Eppure non c’è trama che tenga, ma continui incidenti e infinite smagliature ci trattengono fuori da una rappresentazione sempre promessa e sempre sospesa.
Insomma, in platea non si riesce a fare la nostra parte. Il trucco sta forse nel fatto che in scena gli attori sono determinati a “non fare” la loro. Sono loro allora, gli attori, a essere fuori dal teatro? Non ancora ma certamente stanno rischiosamente camminando ai bordi, avvertendo il brivido (ancora una volta, il freddo) di chi sta per precipitare. Ma dove? In quale precipizio?
Cosa c’è in effetti una volta fuori dal teatro e dalla sua piattaforma di finzione? Sicuramente non c’è più né la realtà materiale né la società dello spettacolo che se l’è mangiata: oggi come oggi dalla finzione non può si tornare indietro, si può solo procedere oltre il suo territorio convenzionale già civilizzato e appunto esplorare i poli artici e antartici della sua sferica (globale) superficie. Gli attori arrivano così a un umorismo postumo, poiché siamo da un pezzo già tutti “morti dal ridere”. Gli spettatori ugualmente fingono di divertirsi come fossero vivi, ma uno per tutti e tutti per uno, aggregati e spaesati come pinguini. Così, indecisa fra la complicità e il ricatto, la relazione teatrale fra spettatori e attori, arrivata ai suoi esigui confini, si mantiene in bilico, come sospesa in un baratro sotto il quale non c’è altro. Non c’è nulla.
“Periteatro”, sembra una battuta ma invece è una credibile definizione del teatro dei Menoventi. Certo l’assonanza con il parateatro di grotowskiana memoria non è legittima, anzi è fuorviante. Come già detto, al contrario della sfida in profondità, quella dei Menoventi è una ricerca di esasperata superficialità: come equilibristi si muovono lungo il perimetro del teatro, dove non si può che girare all’infinito sempre prendendosi in giro. Come si è visto dagli spettacoli citati (per chi non li ha visti per davvero), i confini del teatro sono anche quelli materiali e banali di una scena che non ha nulla da far vedere e di uno spettacolo che non va a incominciare, di attese inappagate e di sorprese derise. Nell’estremo cerchio perimetrale della teatralità, la finzione e la fruizione camminano insieme, tenui e tese come corde che rischiano di spezzarsi, quando addirittura non si rischia invece di restarvi impiccati.
Una estenuante ripetizione è la chiave della recitazione degli attori ma è anche la porta dell’attenzione degli spettatori. Per scomodare e parafrasare Deleuze, “è la ripetizione che fa la differenza”. Non si tratta però di quell’iterazione che cerca l’in-canto di ogni azione e parola, non si tratta nemmeno di reiterare quelle in-potenze che fanno sorridere in commedia o che deridono la tragedia. La ripetizione dei Menoventi è scientificamente esatta e ostinatamente asettica: comincia come una segnaletica e procede come una tortura. Inesorabilmente, ogni parola e azione ripetuta spinge la recitazione al di là della vergogna, forza il limite dell’assurdo e finalmente illumina un frammento di miracolosa e pericolosa verità. L’attore – e soprattutto l’attrice Consuelo Battiston – si prende così la sua rivincita, toccando un vertice di superficie che sta alla pari (anzi, galleggia sopra) ogni profondità introspettiva degli attori tradizionali e perfino (viene da bestemmiare) degli attori santi. È bravura certamente, ma è anche il gelido risultato analitico cui perviene una recitazione non recitata: alla fine, si arriva al calor bianco di un parossismo; alla fine, una fredda esecuzione taglia davvero la testa all’attore e lo esalta tecnicamente mentre lo porta umanamente alla rovina. Alla fine, insistere oltre la farsa postmoderna del nostro inverno quotidiano, può superare la densità e la verità di ogni classica e umana e infine calda tragedia. Nel frattempo, lo spettatore che resiste davanti all’attore che insiste, cercando di specchiarsi, affonda dentro la stessa vacuità di uno specchio scenico che non riflette niente. E cosa mai dovrebbe riflettere quando l’attuale vita sociale e morte culturale – scivolata ben oltre l’assurdo alla Ionesco e l’angoscia alla Beckett – non può più essere né invisa né irrisa? E però nemmeno più ignorata o fermata.
Arrivati ai meno venti gradi sotto zero, non si può nemmeno a denti stretti riderci su. Si può al massimo, insieme agli attori dei Menoventi, fingere di riderci “dopo”.

 

 

« Menoventi » est le nom de la énième toute récente compagnie théâtrale implantée dans la région italienne la plus prolifique en ce qui concerne le théâtre de recherche : cette « Romagna felix » – comme l’appellent les critiques de théâtre- où l’on a vu naître et grandir une si grande part noble du nouveau théâtre italien : de la Societas Raffaello Sanzio aux Albe di Ravenna Teatro, de la Valdoca aux Motus, des Fanny & Alexander à leurs très nombreux successeurs et émules. Et pourtant, si l’on regarde leurs spectacles, on ne peut pas dire que les Menoventi soient le fruit de filiations, d’imitations ou encore de suggestions de ces expérimentations désormais historiques ; et l’on ne peut même pas affirmer que le territoire de résidence les ait gâtés ou favorisés. Au contraire, c’est justement le manque de moyens et la rudesse du climat qui leur ont donné leur nom de baptême et de bataille, qui ne veut pas dire « under 20 » et annoncer une nouvelle génération théâtrale, mais veut rappeler les prétendus moins vingt degrés qui ont sévi dans leur première salle de répétitions, à Faenza.
Un nom dissimule souvent un destin ou, dans le cas de l’art, un choix de style même inconscient. Et en effet « le froid » est la caractéristique principale – et la plus évidente- des Menoventi : il ne se contente pas de colorer leur humor, il conditionne aussi leur amour pour le théâtre. Un amour glacial qui a lié les trois acteurs fondateurs (Consuelo Battiston, Gianni Farina et Alessandro Miele) et les a poussés vers l’exploration des zones polaires de l’art de la scène : non pas les obscures liminarités de sa profondeur, mais les limites aveuglantes de sa superficie horizontale… où la rencontre spéculaire avec le public devient aussi évidente qu’éblouissantes.
Bref, quand on examine jusqu’ici leur demande de théâtre et leur offre de spectacles, on perçoit le froid dans la nudité de leurs installations (scénographies ?), dans la froideur des attitudes des acteurs (récitation ?), dans la lucidité de leurs énoncés (histoires ?). Et ainsi de l’autre côté –c’est-à-dire de notre côté en tant que spectateurs – la température rude de leurs spectacles nous maintient en éveil et en alerte, sans jamais atteindre ce moment de calme et de chaleur que nous éprouvons quand nous aimons le théâtre pour le rôle que nous y jouons. Il fait trop froid pour se sentir en paix : les applaudissements sont aussi spontanés qu’extorqués, comme après un assaut qui nous aurait ensorcelés mais aussi épuisés. C’est exagéré, soit, mais c’est pour faire comprendre que dans le théâtre des Menoventi nous ne sommes pas au niveau des boutades et des absurdités ; qui plus est, si nous y regardons bien, le spectateur ne trouvera pas de plaisir intellectuel, vu qu’il n’y a pas d’énigmes à résoudre ni de provocations où se réfugier : l’un comme l’autre – refuge ou solution – donnerait finalement au public la chaleur et peut-être même le confort d’une réconciliation finale. Non, la dimension et l’inconfort du froid atteignent finalement une apogée où aboutit notre reddition, inconditionnelle et éblouie. Mais pourquoi donc ? Et dans quel but ?

Il n’y a ni plaisir ni intérêt à décrire leurs représentations : il s’agit pour la plupart de situations où l’acteur est embarrassé et impuissant, et le spectateur menacé et frappé d’interdit. Un exemple ? Dans Postilla, on amène un spectateur à la fois dans un parcours de visions, après avoir signé la vente de son âme au diable ; dans Invisibilmente deux ouvreuses ajournent continuellement – pour des raisons techniques- un spectacle qui n’aura pas lieu ; dans Perdere la faccia on introduit et propose sans cesse une vidéo qui n’existe pas… Et s’ils présentent leur dernier spectacle L’uomo della sabbia comme une construction capricieuse plus complexe (« à la manière d’Hofmann », disent-ils dans la présentation), en réalité sa solidité n’est qu’apparence, qui ne fait que s’écrouler jusqu’à l’effondrement complet.
Mais à les raconter comme ça, leurs pièces ont l’air d’être des plaisanteries, alors qu’au contraire elles ont de l’épaisseur et arrivent au sommet de jeux d’acteurs toujours plus raffinés et exaspérés, qui se dépensent et perdent même leur temps dans une relation avec le spectateur aussi ridicule qu’angoissante. Cela peut paraître évident : on ne sait que penser face à des acteurs qui ne savent que faire, mais leur conscience et leur sagesse rend notre ignorance évidente.
En fait, que venons-nous faire – ou penser – au théâtre ? Parce que même dans celui des Menoventi, il y a toujours bien un texte et une action, une situation claire et un déroulement régulier. Et pourtant il n’y a pas une trame qui tienne, mais de continuels incidents et des démaillages infinis nous retiennent en dehors d’une représentation toujours promise et toujours en suspens. En fait, dans le public nous ne réussissons pas à jouer notre rôle. Le truc tient peut-être dans le fait qu’en scène ils ne jouent pas le leur.
Ce serait eux alors, les acteurs, qui seraient hors du théâtre ? Pas encore, mais ils sont certainement en train de marcher sur les bords, non sans risque, éprouvant le frisson (encore une fois, le froid) de celui qui est sur le point de tomber. Mais où ? Dans quel précipice ? Qu’y a-t-il en effet une fois hors du théâtre ? Il n’y a sûrement plus ni la réalité existentielle et matérielle ni la société du spectacle qui l’a engloutie: de nos jours on ne peut pas reculer dans la fiction, on peut seulement avancer au-delà de son territoire conventionnel déjà civilisé et justement explorer les pôles arctique et antarctique de sa surface sphérique. Les artistes en arrivent ainsi à un humour posthume, parce que nous sommes déjà tous « morts de rire » depuis un bon moment… Les spectateurs font semblant de s’amuser tous ensemble, agglutinés et dépaysés comme des pingouins. La relation théâtrale arrivée à ses étroits confins se maintient en équilibre, comme suspendue au-dessus d’un gouffre sous lequel il n’y a rien d’autre. Il n’y a rien.

« Périthéâtre », on pourrait croire à une boutade, mais c’est au contraire une définition crédible du théâtre des Menoventi. Certes, l’assonance avec le parathéâtre de mémoire grotowskienne n’est pas légitime – elle induit même en erreur.
Nous l’avons dit, contrairement au défi en profondeur, celui des Menoventi est une recherche de superficialité exaspérée : tels des funambules, ils se déplacent le long du périmètre du théâtre, où l’on ne peut que tourner à l’infini en se moquant toujours de soi-même. On l’a vu dans les exemples cités : les frontières du théâtre sont aussi les frontières matérielles et banales d’une scène qui n’a rien à montrer et d’un spectacle qui ne commencera pas, d’attentes inassouvies et de surprises tournées en dérision. Dans le dernier cercle périmétral de la théâtralité, fiction et jouissance vont de pair, tenues et tendues comme des cordes qui risquent de céder, alors que l’on ne risque même pas de s’y pendre.
Une répétition exténuante, voilà la clé du jeu des acteurs et la porte de l’attention des spectateurs. Pour paraphraser Deleuze, « c’est la répétition qui fait la différence ». Il ne s’agit cependant pas de cette répétition qui rend vaines toute action et toute parole, et il ne s’agit pas non plus de réitérer ces tentatives impuissantes qui font rire en comédie ou dérident la tragédie. La répétition des Menoventi est banalement exacte et obstinément aseptisée : elle commence comme une signalisation et continue comme une torture. Inexorablement, chaque parole et chaque action répétées pousse le jeu au-delà de la honte, force la limite de l’absurde et finalement illumine un fragment de vérité miraculeuse et dangereuse. L’acteur – et surtout l’actrice Consuelo Battiston – prend ainsi sa revanche en touchant un sommet de surface qui vaut bien toute la profondeur introspective des acteurs traditionnels (et même, elle flotte au-dessus d’eux) et aussi (on en vient à blasphémer !) des acteurs saints. C’est sûrement de la bravoure, mais c’est aussi le glacial résultat scientifique auquel parvient un jeu non récité : à la fin, on arrive à la chaleur blanche d’un paroxysme ; à la fin, une froide exécution coupe vraiment la tête de l’acteur et l’élève techniquement tandis qu’elle le conduit humainement à la ruine. À la fin, le fait d’insister au-delà de la farce post-moderne peut dépasser la densité et la vérité de toute tragédie classique.
Entre-temps, le spectateur qui résiste devant l’acteur qui insiste, cherchant à se regarder dans le miroir, se noie dans la vacuité même d’un miroir scénique qui ne reflète rien. Et que devrait-il donc refléter quand l’actuelle vie sociale et notre culture quotidienne – qui a glissé bien au-delà de l’absurde à la Ionesco et de l’angoisse à la Beckett – ne peut être ni taquinée ni tournée en dérision ? Mais non plus stoppée?
Quand il fait moins vingt et qu’on claque des dents, on ne peut même plus en rire jaune. On peut tout au plus, avec les acteurs des Menoventi, faire semblant d’en rire « après ».

Traduit de l’italien par Laurence Van Goethem.