Destrutturando il foglio di sala dell’esistenza
Salvatore Insana |
Krapp's Last Post |
18/04/2013
Ultimo appuntamento della breve rassegna che l’Angelo Mai ha dedicato alla cooperativa E production, base a Ravenna e confluenza di compagnie dall’estetica diversa ma accomunate da una condivisa voglia e necessità di allargare e ridiscutere il “fare teatro”, l’Invisibilmente dei Menoventi (già visto da Klp al Festival delle Colline Torinesi 2011, ed occasione per un’intervista al regista Gianni Farina) è un gioco metateatrale che destruttura ed elude l’idea classica di spettacolo, esibendone le “etichette”, i rituali preparatori, negandone i convenzionali punti forti, forzando l’attenzione.
La sfida è il mettere in scena ciò che è avvertito come sempre più intollerabile in una società dove si è diventati clienti incasellati e controllati, guidati in ogni azione, consapevoli della durata, dell’inizio, della fine di ogni impegno-appuntamento. Ovvero il mancato spettacolo, la negata soddisfazione. Ciò per cui avevo pagato il biglietto non si è fatto vedere.
Per scuotere gli ignavi dal loro torpore, per rompere il ciclo degli eventi bisogna fermarsi all’accoglienza: benvenuti (nel deserto del reale?). Cpt della scena, centro di permanenza temporanea ma concentrazionaria di chi si ostina ancora a volere “cultura”. Sospesi al momento dell’ingresso in sala, prima che le luci si abbassino, lo spettacolo è sempre a venire. Siamo nel pre-scena e in quel “pre-spettacolo” che ovviamente diviene spettacolo a sua volta. Io mi aspetto qualcosa che mai verrà. La confezione si è rotta prima d’essere aperta. Il personale di sala con imbarazzo s’improvvisa prima messaggero di intoppi tecnici e poi intrattenitore.
Abbiamo un problema. Abbiamo paura di interromperci. Nel temporeggiare, nel prendere tempo durante il tentativo di ripartenza, girandoci indietro potremmo accorgerci di qualcosa che non preventivavamo come possibile. Ci potremmo accorgere dell’invisibile.
Quando scopri d’esser manovrato da un regista invisibile è ormai troppo tardi. Siamo sotto scacco, abbiamo eseguito l’ordine di metterci al centro della scena, fingere disinvoltura (nell’essere noi o altro da noi?), pensare di saper/poter gestire la situazione, di padroneggiare il momento, e poi scopriamo d’essere sottotitolati, didascalizzati ad uso e consumo di chi ne sa più di noi: gli spettatori di turno, quelli che si godono lo spettacolo, quelli che hanno anche la spiegazione di ciò che sta accadendo, quelli che giudicano d’aver fino a quel punto eseguito ordini.
Il cruccio e il rovello d’essere sempre esecutori e mai mandanti è la condizione dequalificante di chi vorrebbe essere autore e regista delle proprie azioni e invece non lo è.
Le due “maschere” in scena, Consuelo Battiston e Alessandro Miele, si barcamenano in una ‘captatio benevolentiae’ dai risvolti tragicomici, nell’impossibile nascondersi e fuggire sotto gli occhi di tutti. Si affidano soprattutto alla mimica corporea e facciale, con quell’understatement vocale di chi inscena l’inadeguatezza e non certo il virtuosismo attorale, facendosi dominare da quell’atteggiamento goffo di chi è vinto dall’imbarazzo ma è soggiogato contemporaneamente dalla deontologia professionale. Resistere come baluardo grottesco a sostegno dell’istituzione fantasma. Mantenersi in trappola tra la volontà di fuga e l’obbligo a rimanere. Una faccenda di carattere esistenziale.
Ancora trattenersi, intrattenere, rimandare l’esplosione, trovarsi fuori posto: “noi non dovevamo essere qui”. Non volevamo essere giudicati per le azioni che non avremmo dovuto compiere.
Cronologicamente nato prima del più recente “L’uomo della sabbia”, è però ancora occasione per rinnovare l’elogio a Gianni Farina e ai Menoventi, al loro installarsi con ironia in quella impasse tecnica della convenzione sociale che prevede l’inizio dello spettacolo una volta che il pubblico sia entrato in sala, patto non ancora abbastanza negoziato con il già citato fruitore-cliente-utente, tra chi offre una prestazione (una performance) e chi è là per usufruirne i benefici (?) o comunque le conseguenze.
Quel non trovare ciò che si aspetta provoca rovelli da caduta dalle nuvole, da arresto imprevedibile della catena cinetica che regola le nostre giornate. Chi ci rimborserà dalla tirannia di una vita pre-stabilità? Chi e quando ci fornirà il foglio di sala della nostra esistenza? Dobbiamo allora forse aspettare di “aprire gli occhi e accorgerci d’essere nudi”.