E lo spettatore rimase solo
Alessandro Fogli |
Palcoscenico |
02/01/2010
Le mille trappole dei Menoventi per spaesare il proprio pubblico
dialogo con Gianni Farina e Consuelo Battiston a cura di Alessandro Fogli
Giovane compagnia tra le più interessanti in assoluto nel panorama di ricerca italiano, i Menoventi – Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele – si formano a Faenza nel 2005, dopo aver lavorato per la prima volta insieme in occasione dello spettacolo “Salmagundi”, del Teatro delle Albe. È del 2006 il loro primo lavoro, “In Festa”, seguito l’anno successivo da “Semiramis”, vincitore di vari riconsocimenti. Arrivano quindi “Invisibilmente” (2008), inserito quest’anno nel cartellone del Nobodaddy, e “Postilla” (2009), spettacolo ideato per un solo spettatore alla volta. Gianni Farina, regista oltre che attore, e Consuelo Battiston ci guidano nel mondo Menoventi.
Gli spettacoli che avete portato in scena finora sono molto diversi tra loro ma legati da un sotterraneo filo rosso. Si può parlare di una poetica dei Menoventi?
Farina: «Riteniamo di non avere ancora una vera poetica formata e sviluppata e che sia giusto così, perché se una compagnia al quarto spettacolo si fossilizza già su certi schemi, c’è il rischio di irrigidirsi, di sedersi un po’. Dei motivi tematici che ritornano però ci sono sicuramente; il nostro chiodo fisso nei primi spettacoli è stato il controllo. Nei primi tre lavori c’è come un’entità non ben definita, superiore, direi quasi sovrannaturale, che aleggia sui personaggi e li controlla, li pone nella situazione che poi andiamo a mettere in scena. In Semiramis, ad esempio, c’è questa specie di entità che raggira la figura isolata della protagonista dandole l’illusione di non essere sola, tramite una serie di coincidenze. Un altro tema che ricorre sia in Semiramis che in Invisibilmente è l’abbattimento della “quarta parete”, con l’azione che si svolge “qui e ora”, senza ignorare il pubblico ma anzi rendendolo parte integrante. Cosa che raggiunge il massimo grado in “Postilla”».
Mi sembra che il vostro rapporto col pubblico, fondamentale, abbia preso due direttive: una di coinvolgimento, vedi appunto “Postilla”, l’altra di spaesamento.
Farina: «Spaesamento è un termine giustissimo. Piuttosto che dire cose al pubblico, preferiamo che viva un’esperienza vera, un accadimento reale, e lo spaesamento, se riesci a produrlo, è reale, non c’è niente di finto. In tutti i nostri spettacoli questo tentativo di confondere lo spettatore è andato crescendo. Cerchiamo sempre un confine fra il gioco e il non gioco, tra il palco e la platea. È lì, è un confine paradossale, non esiste, ma per noi c’è, cerchiamo di porre il pubblico nel confine lì sul proscenio».
Battiston: «Come se per un attimo lo spettatore si domandasse – e questa è l’utopia che ricerchiamo – “ma è vero oppure no? Fa parte della vita anche questo o no?”. Ci poniamo cioè sul limite dell’ambiguità».
Veniamo a Invisibilmente. Il fatto che sia molto divertente non rischia di oscurare la parte più inquietante, più seria?
Battiston: «All’inizio il fatto che sia divertente è voluto, per catturare il pubblico».
Farina: «In questo modo cade nella trappola, perché se non fosse così coinvolto, in maniera così giocosa fin dall’inizio, lo spettatore non arriverebbero a un gesto come quello finale; se fosse una cosa fredda e distaccata non farebbe quell’azione».
Battiston: «Nella seconda parte dello spettacolo però non si ride, e il rapporto col pubblico è più stretto».
Farina: «Anche la platea più popolare e che ha più voglia di ridere, nella seconda parte comincia a fiutare che c’è odore di trappola. Il ritmo rallenta e a un certo punto comincia a vedere l’altro lato dello spettacolo. D’altronde tutti i nostri lavori vogliono allargare il più possibile la fruizione al tipo di spettatore».
Battiston: «Ma senza mai ammiccare, senza cercare di essere suadenti, e cercando invece più livelli di lettura».
Come nascono i vostri spettacoli?
Farina: «Abbiamo dato un nome al nostro modo di lavorare, e cioè “metodo stocastico”, che è un metodo volto a includere nella creazione il casuale, a guidare il casuale in una direzione e poi ad accogliere ciò che esso ti dà. Quindi in realtà lavoriamo moltissimo con l’improvvisazione, perché l’inconscio dell’attore, in questa situazione, fa cose non premeditate, e noi le mettiamo in gioco. Ciò ci permette proprio di scrivere lo spettacolo, non serve solo per fare la regia; è praticamente una scrittura scenica portata un po’ all’eccesso, perché a volte l’idea di partenza è volutamente molto vaga, di modo che possiamo abbandonarla in ogni momento e fare anche tutt’altro, se il caso ci regala qualcosa che ci convince più dell’idea di partenza».
Battiston: «È comunque un’improvvisazione, che magari all’inizio non va bene e viene riscritta, poi si riprova, si riscrive, si smussa, come uno scultore che lavora con l’argilla».
Un elemento comune a Semiramis e Invisibilmente è la parola scritta in scena, un messaggio al pubblico.
Farina: «È vero. Stiamo studiando dei testi di Gabriele Costa, antropologo e studioso di linguistica, molto interessanti, dai quali è emerso che questo meccanismo – leggere mentalmente delle cose – è il passaggio che ha permesso di sviluppare l’autocoscienza. Attraverso tutta una serie di concatenamenti inconsci, Costa spiega che alla fine si riesce a spingere lo spettatore verso ragionamenti o azioni che noi possiamo benissimo prevedere; e infatti la scena finale di Invisibilmente, che si basa su questo studio, implica un’azione, sempre riuscita, da parte del pubblico».