“Credi ai tuoi occhi”, l’apparenza (non) inganna

Roberta Cristofori | 

The Bottom Up | 

13/03/2016

Si abbassano le luci e le voci degli spettatori, da una coltre rarefatta di fumo emerge una donna in rosso. Tutto, in effetti, è di un rosso ridondante: i suoi capelli, il suo vestito, le décolleté, le labbra, le tende della scena. Lentamente si avvicina e, camminando verso il pubblico, si mettono a fuoco alcuni segni sull’abito che indossa. Posandovi lo sguardo si riconoscono loghi e nomi delle grandi case di moda, detentrici di un potere unico: indurre desideri legati ai nostri “mascheramenti” sociali. È una figura filiforme, mangiata dal tempo e dalle nevrosi, che trema e incurva il suo corpo, deformandolo, mentre parla. Ricorda un’attrice del muto espressionista, la cui gestualità deve sopperire all’impossibilità dell’eloquio. Si chiama Anita (Consuelo Battiston) e, in effetti, è stata anche una diva del muto: qui è La ballerina Anita Berber di Otto Dix del 1918. Aveva 26 anni la Berber, eppure la sua vita stava già volgendo al termine e il suo corpo non avrebbe retto gli eccessi ai quali lei stessa lo aveva sottoposto, in una sfida continua oltre i limiti dell’accettabile. Infatti in quel quadro tutto appare fuorché una giovane nel fiore degli anni. Sotto il trucco si nasconde lo sguardo di una donna bioriosa e pronta a incamminarsi sul suo Sunset Blvd. Come un Faust femmineo sembra aver stipulato un patto con il pittore, una Dorian Gray che cede al sublime ricatto dell’eterna giovinezza: bisogna approfittare della gioventù finché la si possiede, chiosando Oscar Wilde.

E Anita si rivolge direttamente al pubblico, avanzando lo stesso ricatto. Quando noi, tutti noi, saremo anziani e il nostro volto sarà ricoperto di rughe, non conteremo più nulla. Poiché non avremo più quel potere, il potere della seduzione, che è l’unica arma possibile per non cedere alla subordinazione sociale. La bellezza è una merce venduta con un abito scollato, un tacco alto, una lozione illuminante, una crema antirughe, una collana brillante, un rossetto. Ma nulla può contro l’avanzare inesorabile del tempo. Sul palcoscenico vi sono tre giovani donne (Federica Garavaglia, Sofia Taglioni, Zoe Pernici), splendide nelle loro turgide forme, prigioniere della volontà di Anita, che le costringe a tuffarsi letteralmente nella passerella della vita.

Loro rappresentano ciò che Anita era e Anita si identifica con ciò che loro diverranno. È lei ad insegnargli quali maschere apporre sui loro visi per trasformarsi ogni volta in una persona nuova, quando entrano in contatto con l’altro. E saranno proprio loro a tradirla con i suoi stessi strumenti, mettendola in ridicolo. Mentre Anita cammina sul parterre davanti al pubblico, all’improvviso, perde una delle sue alte scarpe rosso carminio: Anita ha perso il potere. Da questo momento in poi la sua immagine subirà una trasformazione, sempre più vecchia, perderà anche i capelli, e saranno le sue giovani allieve a lanciarla di nuovo sul parterre affinché possa riconquistare il suo carisma. Ma quella scarpa non c’è più e anche la memoria lentamente svanisce, ed è dunque il pubblico a doverle suggerire le battute, instaurando un patto d’affinità con le tre giovani modelle che lo coinvolgono. Le ragazze, vestite ora del nero abito da lutto spagnolo, segnano la fine di Anita attraverso un rito per la riconquista del potere; una danza attorno alla scarpa rossa, che determina infine la loro vittoria e nuova tirannia. Anita soccombe e gli spettatori sono complici: ciò che propongono le tre parche in nero è semplicemente la prosecuzione del precedente regime normativo.

In questo spettacolo si intrecciano numerosi riferimenti letterari, teatrali, cinematografici e saggistici, rendendolo di fatto una vera e propria opera postmoderna dagli infiniti piani di lettura. Alcuni facilmente rintracciabili, come Oscar Wilde e il suo celebre «l’unico modo per liberarsi di una tentazione è abbandonarvisi», altri meno scontati, come il cinema di Lynch, il saggio Contro la moda di Ugo Volli o ancora la Jeune-Fille dei Tiqqun ed Erving Goffman. Ma non sarebbe giusto svelarli tutti. Facendo proprie queste numerose tracce citazionali, lo spettacolo ha preso forma attraverso la tecnica della “scrittura scenica”: si tratta di un «testo che si scrive durante le prove» — spiega il regista Gianni Farina —, dove la sceneggiatura non preesiste alla ricerca degli attori. «Già Pirandello lo faceva, è una pratica molto diffusa per un certo tipo di teatro e consente di mettere in scena anche testi molto lontani dall’ambito letterario. Durante le prove la situazione che si vuole ricreare è chiara, solo le parole non lo sono». In questo modo la fase di stesura del testo drammaturgico può essere lunghissima, può durare anche diversi mesi, per protrarsi addirittura «anche dopo la prima». «Sai cosa diceva Mejerchol’d? Che la vera prima è la trentacinquesima», ed è evidente in questo caso.

Costumi (Giovanni De Pol) e musiche (Mirto Baliani) sono anch’essi originali, creati e composti su misura durante la fase di realizzazione. Così come prende forma il testo, prende quindi forma anche il progetto sonoro, in un legame di interazione che condiziona l’uno e l’altro codice. Mirto Baliani, autore delle musiche, parla di «metodologie che consentono di aprire strade e possibilità». Davanti a un bivio si trovano anche gli attori durante il coinvolgimento del pubblico. È una scelta inusuale e difficile, che potrebbe non offrire il risultato voluto se gli spettatori scegliessero di non partecipare. Cosa reagireste se l’attore rompesse quel muro che separa il campo della finzione da quello della realtà, rivolgendosi direttamente a voi, chiedendovi di offrire un vostro contributo con una parola o un gesto? Quale sarà la reazione? «Il pubblico diventa come un corpo unico», secondo il regista Farina. «Mentre il singolo è incontrollabile, la massa è manipolabile. È chiaro che c’è una difficoltà, ma lo spettacolo si costruisce a bivi proprio perché bisogna essere pronti anche a questo». Quindi il risultato finale non è mai lo stesso, la rappresentazione di oggi non sarà la stessa di domani proprio perché le battute cambiano in base alla risposta del pubblico.

Credi ai tuoi occhi ci svela come in fondo siamo tutti attori nello spazio pubblico della vita, lo spazio del parterre su cui Anita perde la scarpa, e ci svela allo stesso modo come la nostra vita quotidiana in fondo non sia nient’altro che una rappresentazione, per usare le parole di Goffman. Comunichiamo continuamente con gli altri, non semplicemente con le parole, ma anche con gli oggetti di cui ci circondiamo e gli abiti che indossiamo, perciò le nostre apparenze rispecchiano una dinamica di forza. Dietro questa illusione si nasconde un paradosso, così come spiegato dai Tiqqun: quello di credere di essere padroni, ma rimanere sostanzialmente sempre servi dei desideri indotti dalla società.

«All right, Mr. DeMille, I’m ready for my close-up», direbbe Norma Desmond.