la cerimonia del fango

La cerimonia del fango

Lorenzo Donati, Alex Giuzio, Giulia Damiano | 

Doppiozero | 

24/05/2024

È passato un anno dall’enorme alluvione che ha inondato la Romagna. A causa delle forti piogge (in 48 ore è caduta la stessa quantità di acqua di un mese, una delle conseguenze del riscaldamento globale che provoca eventi meteorologici estremi sempre più frequenti e violenti), tra il 15 e il 17 maggio 2023 sono esondati 21 fiumi, provocando allagamenti in 37 comuni, 250 gravi frane, 17 morti e oltre 20.000 sfollati. Faenza si era già alluvionata due settimane prima ma in un solo quartiere, mentre il secondo evento ha sommerso mezza città, lasciando ferite ancora aperte, segni visibili sugli edifici e nei volti, danni non ancora riparati né indennizzati.

Un anno esatto dopo, il cielo ha fatto cadere ancora pioggia e provocato allagamenti in alcune località romagnole, meno gravi ma che hanno riesumato la memoria e la paura di quei giorni. Nelle colline fra Bologna e Modena diverse esondazioni hanno distrutto e messo in pericolo colture e fabbricati, come quella del Rio Marzatore in zona Castello di Serravalle, che ha lambito la casa del Teatro delle Ariette portandosi via mezzi e macchinari. In Romagna invece, un anno dopo una compagnia teatrale ha organizzato un rito per rielaborare il dramma ma soprattutto per dare risalto alla risposta collettiva che ne è seguita, con migliaia di cittadini che non si sono persi d’animo e, aiutati da volontari accorsi da tutta Italia, hanno spalato fango, buttato mobili, preparato il pranzo per chi non aveva più una cucina. La cerimonia del fango, a cura di Menoventi, è stato un evento speciale che ha portato il 16 maggio in Piazza del Popolo a Faenza centinaia di persone, un rito collettivo per non dimenticare il senso di comunità e di determinazione che hanno caratterizzato quei giorni difficili. Così ci racconta l’origine del lavoro Gianni Farina, regista, al quale fa eco Consuelo Battiston, attrice:

“In quei giorni del maggio 2023 eravamo a Milano, per le repliche di un nostro spettacolo, Il defunto odiava i pettegolezzi. Abbiamo dunque vissuto l’alluvione attraverso gli schermi del cellulare. Da diversi anni organizziamo in città laboratori teatrali e ci pareva strano non riflettere su quanto era accaduto. Da cittadini, dunque, abbiamo deciso di riflettere sulla tragedia coi nostri mezzi, attraverso il teatro. Servono dei cerimonieri, ci siamo detti. Ci era venuta una prima idea: camminare collettivamente sull’argine in una sorta di dialogo col fiume, guidati da giovani cerimonieri che si sarebbero preparati durante l’anno”.

“Per me, Consuelo, la prima chiamata ai comitati e alle realtà alluvionate è stata molto difficile, mi sentivo in colpa, sono una cittadina che non ha avuto nessun problema particolare. Poi ci siamo fatti forza e abbiamo incontrato tantissime persone. Alcune inizialmente non volevano partecipare, pensando che fosse una celebrazione istituzionale. Si è trattato di provare a spiegare con pazienza come lavora il teatro, come prova a raccontare e rielaborare. Poi gli incontri si sono moltiplicati ‘da soli’, accogliendo i suggerimenti di chi ci diceva di parlare con questa o quell’altra persona”.

La cerimonia del fango si è composta di una serie di cortei partiti dai quartieri finiti sott’acqua e confluiti nella piazza principale della città dove si è tenuto un rito collettivo: il disegno di un fiume ricavato con segatura colorata, due bracieri per bruciare le canne fluviali distribuite prima ai cittadini, un ballo finale tutti insieme per mano. Negli ultimi anni il teatro si è misurato spesso con la crisi climatica, l’emergenza principale della società contemporanea; ma in questo caso non lo ha fatto con uno spettacolo bensì con una cerimonia collettiva che ha coinvolto i cittadini sia come figuranti che come spettatori: è un’espressione alta di quel ruolo pubblico, sociale e rituale delle arti sceniche dal vivo, che agiscono nella e sulla realtà.

La cronaca che state leggendo tenta di preservare parte della polifonia di una Cerimonia che ha coinvolto decine di realtà associate, scuole, comitati, musei e singoli cittadini. Menoventi ha inoltre curato tre laboratori con adulti, ragazzini delle scuole medie e bambini durante l’inverno. Il nostro racconto segue dunque tre diversi cortei ‘esito’ dei laboratori, dando ampio spazio alle testimonianze raccolte. Le foto che accompagnano la cronaca, dove non specificato, sono di Mattia Pasini. Le immagini firmate sono invece di Michele Lapini, che ringraziamo per averci voluto ‘donare’ la possibilità di riprodurle. A fine racconto l’elaborazione grafica dello stivale è di Marco Smacchia. Partiamo dalla zona del Cimitero.

1. “Fiume, fiume, non arrabbiarti!”. Dal cimitero verso la Piazza 

Sono davanti al cimitero dell’Osservanza di Faenza, nello “Stradello” in mezzo al prato, dove partirà di lì a breve (e pioggia permettendo!) uno dei sette cortei previsti per la giornata di rito a un anno dall’alluvione. Il primo pensiero che mi torna alla mente il 21 maggio 2023, quando raggiungemmo Faenza per dare, come tantissimi, una mano alle persone del posto, è quello di aver lavato con dell’acqua, in quello che doveva essere un giardinetto dietro una casa, i giocattoli del nipotino di una signora che un po’ commossa ci disse qualcosa come: “Sono recuperabili, basta lavarli”.

Durante questa giornata di memoria collettiva, aspettando l’inizio del corteo, un gruppo di bambini e bambine delle medie ripassa la propria parte sul prato. Lì intorno alcuni genitori e qualche primo partecipante al corteo si pongono ai lati del perimetro ideale di questo teatro di strada. La mamma di una delle bambine mi si avvicina e inizia a raccontarmi. “Noi abbiamo sofferto, ma non tanto quanto quelli che sono stati salvati dal tetto”. La scala, la gerarchia del dolore è qualcosa che non dovremmo mai abituarci a fare, penso. Ma in questi casi, forse anche per una sorta di autotutela, aiuta a trovare un modo per affrontare un evento traumatico. Le chiedo della bambina e mi racconta che aveva portato sua figlia da uno psicologo dell’emergenza per capire se avesse bisogno di un percorso o un momentaneo sostegno rispetto a quel che aveva vissuto, tra l’alluvione e il covid. Non le ho chiesto se si trattasse di uno sportello pubblico post-alluvione o se fosse qualcuno a cui si era rivolta privatamente. Navigando in rete, però, trovo che il Comune di Faenza ha messo a disposizione uno sportello di supporto psicologico e sostegno alle famiglie, organizzato dall’AUSL Romagna, che Emergency ha attivato un servizio di assistenza psicosociale, e così via.

La mamma continua: questo psicologo le ha detto che la figlia aveva reagito relativamente bene alla questione e le ha spiegato che questo evento andava preso e riposto, ma non sotterrato nella memoria, perché le sarebbe stato utile in futuro, rendendola capace di ‘reagire’ a un evento traumatico. Questo aspetto comportamentale e adattivo della visione psicologica su un evento emergenziale, straordinario, di ‘estremo climatico’ come lo è stata l’alluvione del maggio di un anno fa, decisamente colpisce. La mamma conclude dicendo: “l’ho disiscritta dalla piscina, adesso la porto a un corso di teatro… Ho notato che le piace molto, poi ricorda le battute… E ne ha bisogno”. Intanto apre l’ombrello, ricomincia a piovere.

Beatrice Cevolani ha guidato questo laboratorio e così racconta il suo processo di lavoro:
“Inizialmente l’ho presa larga: ho chiesto alle ragazzine di scrivere dei testi sull’acqua, sul movimento e sul rumore dell’acqua. Chiedevo anche: che cosa avete visto, cosa è stata per voi l’alluvione?  Non sempre ottenevo la giusta attenzione. Un giorno una bambina ha usato l’immagine delle lacrime come gocce, che poi è diventata la nostra azione teatrale, con delle gocce blu ritagliate sul cartone. L’altra sera la stessa bambina era molto turbata e si è messa a piangere, qualcuno non capiva perché … mi sono fatta l’idea che chi ha vissuto l’alluvione in prima linea la vive ancora come ferita aperta, mentre molti altri riescono a distogliersene, per fortuna direi”.

I bambini e le bambine iniziano a dare forma a quel teatro:
“Quando ha esondato noi avevamo paura, ma forse era solo uno sbadiglio. Il fiume è grande, non dobbiamo avere paura di lui.[In coro] Fiume, fiume non arrabbiarti! Fiume, fiume non gonfiarti!Senza l’acqua non potremmo vivere. L’acqua aiuta e l’argine contiene.[…] Fiume fiumino, grande o piccino, sei bello e sei brutto, non sei nostro e poi tutto”.

2. “In Romagna gli uccelli volano più in basso di dove nuotano i pesci”. Dal Borgotto

Il corteo parte davanti alla sede della CGIL nel quartiere Borgotto. La pioggia che cade da ore rievoca il fantasma dell’alluvione, si riesce a leggere negli occhi delle persone in attesa. Molte di queste indossano una felpa rossa con il logo del sindacato. “I nostri uffici sono stati completamente allagati dall’alluvione; abbiamo riaperto solo un mese fa”, mi dice un’impiegata. Una bambina con l’impermeabile pedala in cerchio attraversando una grande pozzanghera: l’acqua ha il potere di spaventare e di distruggere, ma anche di farci giocare e rilassare, da bambini come da adulti. Qualcuno distribuisce canne palustri al pubblico e dipinge strisce di fango sui volti, sono i cittadini che hanno partecipato ai laboratori teatrali di Menoventi. Molti indossano stivali di gomma, alcuni infangati: sarà ancora quello di un anno fa?

Davanti alle aste di due microfoni iniziano ad alternarsi le voci di chi ha vissuto quei giorni drammatici: brevi frammenti di parole tese e inquiete, che rielaborano i ricordi più bui sotto forma di poesia. Come nessun uomo può bagnarsi due volte nello stesso fiume, dicono, anche loro non sono più le stesse persone di un anno fa. “Il 16 maggio 2023 qualcosa è cambiato. Ci siamo infangati, feriti, risollevati e forse anche fortificati. Sicuramente ci siamo resi conto di non essere soli”. I racconti di quei giorni insistono soprattutto sull’odore pervasivo che si intrufola ovunque, tra i libri, i mobili, gli album fotografici. È l’odore a legare i ricordi di tutti, e ognuno lo descrive a suo modo: paludoso, melmoso, putrido, nauseante, corrosivo. Ci indugiano a lungo e sembra quasi di iniziare a sentirlo nell’aria, mentre percepiamo le loro sensazioni ancora vivide, che si trasmettono sulla pelle di chi ascolta, anche tra i più fortunati che non le hanno vissute. Ma come si è giunti a raccontare qui per strada quelle sensazioni, dopo un laboratorio teatrale? Ce lo racconta Gianni Farina:

“Siamo partiti da esercizi di avvicinamento alla pratica scenica, alcuni di loro non erano quasi mai stati a teatro in vita loro. La parte centrale del laboratorio ha avuto incontri bipartiti: una prima ora di pratica teatrale e una seconda di testimonianze sull’alluvione. A volte si raccontava in libertà, altre volte sentivo il bisogno di utilizzare delle ‘scatole formali’: piccoli compiti teatrali extraquotidiani, un approccio che ci avrebbe gradualmente condotto fino alla possibilità di prendere la parola in pubblico. Per esempio abbiamo utilizzato molto il cosiddetto ‘neutro’: uno stesso episodio, in questo caso legato a un’esperienza traumatica, una prima volta raccontato senza emozione alcuna, poi lasciando fluire”.

Continuiamo a camminare. “Il 16 maggio Faenza è diventata un acquitrino. Oggi portiamo in piazza un fiore palustre per liberare la testa dal fango, per testimoniare la nostra tenacia, per ricordare la nostra forza”, concludono prima di dare il via al corteo che si dirigerà verso la piazza. La pioggia continua e siamo coinvolti nel coro: “Quando arriva l’acqua noi siamo sponda, noi siamo radice, noi siamo germogli”. Molte persone si affacciano dalle finestre delle loro abitazioni al piano terra; guardandoli ci si mette nei loro panni un anno fa, quando l’acqua è arrivata ai balconi dei primi piani. Fa effetto la pioggia che continua a cadere sulle nostre teste mentre camminiamo, soprattutto quando il coro grida “E se ancora piovesse?”. La domanda resta sospesa; non sappiamo cosa potrebbe succedere ma sappiamo che succederà di nuovo.

“Una balena mi è uscita dalla bocca”. Piazza Lanzoni

Per arrivare attraverso uno dei ponti sul Lamone, oggi a un solo senso di marcia per alleggerirne il carico, al suo fianco è stato appena inaugurato un nuovo ponte gemello usato per l’altro senso di marcia. C’è un bar nella piazza e svoltando l’angolo si apre via Torretta, guardando sullo sfondo si nota l’argine a pochi metri dalle case: dopo quella notte di maggio i faentini hanno imparato che bastano pochi secondi prima che l’acqua arrivi a inondare i fabbricati. Il proprietario del bar sostiene che i suoi danni ammontano a 65 mila euro, ma di ristori ne sono arrivati poche migliaia, ai quali vanno tolti i 700 euro necessari per la perizia. Sto parlando dell’alluvione in un bar e al tavolo, mentre carico il telefono prima di partire, si siede anche un avventore. Siamo qui a raccontare e ascoltarci fra sconosciuti, un anno dopo, grazie al teatro.

La piazza è il concentramento di uno dei sette cortei cittadini, da qui parte il laboratorio Meme Di voce in voce, condotto da Ermelinda Nasuto. La piazza contiene aiuole che delimitano un prato e con la pioggia si forma subito un paciugo, veniamo invitati a entrare nel verde ma qualcuno resta a osservare da fuori. “Ne ho avuto abbastanza di fango”, dice un uomo maturo mentre regge l’ombrello insieme a quella che pare la moglie. Guardano, e noi con loro, una schiera di sei bambini e una bambina che ci accompagneranno fino alla piazza, attraversando il fiume, correndo in mezzo a noi, spronandoci col megafono.

Si passano la voce in un coro che canta gli oggetti perduti, messi in mostra a terra: un diario segreto, una fotografia del nonno, un giocattolo rompicapo, delle carte da gioco: “Parliamo ancora, parliamo per chi ci ha perso”. Dove sono stati perduti? Forse nelle cantine alluvionate? Ora dobbiamo iniziare a camminare, l’acqua scroscia e ci bagna il capo mentre loro procedono spediti. Nel frattempo è arrivato anche il corteo della scuola di musica Artiststation, attraversiamo il fiume e scopriamo di essere un serpentone di un centinaio di ombrelli e impermeabili. Il fiume dal basso sembra osservarci per concederci il passo, i bambini ci corrono in mezzo, ci anticipano e ci seguono, sgattaiolando fra coppie e singoli. Passando ci consegnano dei rotolini, sono poesie che loro stessi han composto durante l’anno:

“Una notte in un angolo c’era un faro con un fiume sotto.
Il fiume si alzò
e arrivò agli occhi del faro.
Panico.
Il faro ebbe una rottura,
si ruppe un osso, era una frattura!
All’ospedale dei fari lo portarono:
c’era un bruco lento ad aspettarlo
per ripararlo.
Piano piano”.

Questo e altri testi sono stati scritti in momenti laboratoriali con giochi teatrali, esercizi di scrittura, racconti, come ci racconta Nasuto:

“Uno degli esercizi che ho proposto partiva dalla domanda su che cosa abbiamo perso, cercavamo forme di racconto molto libere, per poi incanalare i testi in esercizi di improvvisazione. Un giorno un bambino ha avuto un episodio di grande commozione: ‘Ho paura di perdere i genitori, ho paura che i miei genitori muoiano’, diceva. Gli altri bambini inizialmente ridevano per imbarazzo, altri invece sono rimasti colpiti… forse anche loro pensavano qualcosa di simile, ma si vergognavano? Mi sono domandata se stessi forse chiedendo troppo… sono bambini, dovrebbero fare i bambini. Ho pensato allora che ogni lezione dovesse avere una ritualità molto forte e precisa nella quale i bambini potessero sentirsi sempre a casa e al sicuro. Una formula di inizio e una di fine, con giochi e cori”.

Arrivati sulla sponda opposta il megafono amplifica una vocina che ci consegna l’immagine di una “balena che mi è uscita dalla bocca” (la citazione di un verso della poetessa Laura Accerboni). Tratteniamo queste parole annaspando nella pioggia, il campanile è vicino e fra poco la svolta ci consente l’ingresso in piazza. A destra lasciamo quel sagrato che un anno fa era pieno di ragazzi coi vestiti marroni di fango, scrosciavano gli applausi al passaggio delle pattuglie di vigili del fuoco. A sinistra i due porticati della Piazza del Popolo, un anno fa presìdi permanenti di associazioni e protezione civile, oggi anfiteatro per questo rito di passaggio dal sapore medievale, perché chi agisce si mischia a chi guarda, chi guarda è chiamato ad agire, chi guarda è guardato. Sta arrivando anche il corteo del laboratorio “Senza confini” del Teatro dei Due Mondi. Nel vapore della pioggia si scorge un drappo largo quanto la via che viene retto da diverse persone, come ci racconta Alberto Grilli: “Un corteo con un passo ritmato ondeggiante ricalcato sulle processioni spagnole e del sud Italia. Una carriola trasporta una cassa audio che rimanda una canzone afroamericana sulla schiavitù, in quel caso si racconta di un mondo dove l’acqua può diventare rifugio per chi sta fuggendo”. Ci sistemiamo ai lati, la cerimonia sta per iniziare.

Le nostre mani saranno rete”. Piazza del Popolo

Consuelo Battiston legge alcune parole per inaugurare il rito: siamo qui non per additare colpevoli, dice, ma per recuperare qualche insegnamento venuto su col limo fin nelle nostre case. Narra le peripezie per colorare di diverse tonalità di blu/celeste la segatura per immaginare questo serpentone gigante da mettere in piazza. Enorme e bellissimo, copre tutto il selciato, dai suoi lati si spandono dei rivoli d’acqua quasi poetici, tempera celeste che l’acqua piovana porta via. Dopotutto, e i Menoventi ce lo ricordano ancora, il Panta rei (tutto scorre) di Eraclito suggerisce che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume perché né l’acqua che scorre né noi siamo più gli stessi.

Siamo qui, dice Consuelo, per guardarci in mezzo a questo serpente d’acqua; siamo qui per ricordare e per bruciare le “cannarelle” che avete con voi, gli arbusti ripariali che ci hanno distribuito, e perché col calore si bonifichi un po’ della rabbia, del rancore, della paura. Dopo questo incipit seguirà una teoria di apparizioni, gesti, brevi testimonianze, piccole azioni teatrali: le associazioni, le scuole, i cittadini alluvionati vengono al centro della piazza e lasciano ‘un segno’ donando oggetti, portando pensieri, agendo teatralmente. Per esempio la scultura creata dal Museo Carlo Zauli (che ha visto disperdere il proprio patrimonio di impasti custodito da decenni) con l’argilla dell’alluvione, delle scale ‘improbabili’ create dalla ceramista Antonella Ravagli coi pioli di terracotta, un gorilla mascotte di una pizzeria, la canzone Viva la vida dei Coldplay suonata e cantata dalla scuola ArtistStation, come ci racconta la loro insegnante Elisa Emiliani:

“Ora la nostra scuola è un cantiere, ci siamo trovati lì e abbiamo eseguito una decina di brani, prima di procedere col corteo. Pensavamo di avere alcune adesioni invece sono venute un sacco di persone. È stato importante ritrovarsi in piazza, guardarsi in faccia fra tutte le persone colpite: siamo qui, ricominciamo. È stato come mettere un punto a un dolore”.

Arriva ora una passeggiata in fila ordinata dei bambini, vengono dalla Scuola Il Girasole ancora chiusa, come ci racconta l’insegnante Gloria Flamigni: “Ci siamo ritrovati per questa passeggiata sotto il diluvio con le famiglie e abbiamo portato un saluto alla nostra scuola. Siamo una scuola dell’infanzia, i bambini se la ricordano, ‘tutti i miei disegni sono finiti sotto il fango’, dicono quando pensiamo all’alluvione. È stato importante portare un segno della nostra scuola in piazza, il simbolo del girasole. Il giorno dopo i bambini chiedevano: ‘ora la nostra scuola è ancora lì in piazza’?”.

Arrivano ora palloni da calcio lanciati in aria da una polisportiva, canzoni e cori di voci bianche, la Biblioteca Manfrediana è presente con lo scrittore Cristiano Cavina, che legge due pagine dal suo quaderno dove racconta che l’odore dell’alluvione è molto simile a quello delle cave di gesso vicino a Casola Valsenio, un ricordo della nostra appartenenza alla sostanza di cui si compone l’interno del nostro pianeta. Ma ci sono anche altre parate come quella di un dragone con la testa da gallo romagnolo, memore del medievale rito del drago, con funzione propiziatoria e scaccia flagelli. Tornano i bimbi che ci avevano accompagnato, uno di loro al microfono pone una serie di domande ad adulti e coetanei, chiede che cosa hanno perso, come abbiano fatto a ricominciare, con quale forza, con quale coraggio. Intanto i suoi compagni si passano dei fogli di giornale, di mano in mano la carta serve per costruire una zattera-ponte che permette loro di avanzare, fino a raggiungere il serpente-fiume. Viene chiamato anche il laboratorio Meme degli adulti, ascoltiamo le voci che al microfono si rincorrono, raccontandosi cosa stessero facendo quel giorno, chi ‘cazzeggiava’ e chi trovava l’ufficio di lavoro vuoto. Il racconto della notte dell’esondazione descrive un gatto che miagolava senza sosta, una paura mai provata, l’aver cucinato tutto quello che il frigo conteneva, fino al tentativo di mettere in salvo l’auto facendosi portare dalla corrente, con la strada divenuta alveo. I cittadini-attori prendono ora tutto lo spazio, mimano il gesto di chi spala il fango (anche altri ricalcheranno questa gestualità, divenuta lessico corporeo condiviso), i cori salgono riportandoci agli ordini di evacuazione, all’acqua ai secondi piani e alle persone sui tetti, ma le voci sanno anche farsi coro che aiuta e salva: “e se piovesse / se ancora qui piovesse / se di nuovo di nuovo / se acqua su acqua / le nostre mani mai arrese / le nostre mani saranno rete”.

Un anno dopo. “Forse qualcosa lo abbiamo imparato”

“Forse qualcosa lo abbiamo imparato”, dicono le persone in coro. E la politica? Nei giorni dell’alluvione, chi amministra questi territori ha accentrato tutta la narrazione sulla quantità eccezionale di pioggia, senza ammettere che l’acqua è caduta in un territorio troppo cementificato, impermeabilizzato, disboscato; ed è anche e soprattutto per questo che i danni sono stati così ingenti. Abbiamo costruito troppo vicino ai fiumi, alzato e cementificato i loro argini, deviato i loro corsi senza lasciarli esondare liberi. Abbiamo bonificato per ottenere terreni agricoli dove prima c’era l’acqua, che ora si sta riprendendo il suo spazio in modo violento. A un anno di distanza, la politica dice invece che non si potrà costruire nulla: lo affermano le parole del governatore della Regione e la bozza del Piano speciale post-alluvione, che esclude la possibilità di qualsiasi nuova costruzione nei territori alluvionati. Ma nei fatti non sembra ancora così. Ci sono cantieri ovunque e permessi edilizi già rilasciati per i prossimi cinque anni; ci sono sindaci che fanno tagliare vecchi alberi pensando che ripiantarne il doppio di giovani sia la stessa cosa, mentre sostengono eccessive colate di cemento come il passante di Bologna o le opere per le olimpiadi di Cortina. La politica ha corretto la sua strada solo con le parole, ma le parole in tempi di crisi climatica non servono a nulla. A meno che non siano quelle dell’arte, che può aiutarci a immaginare un futuro diverso, a non restare immobili e passivi, a correggere le decisioni sbagliate e a prenderne delle migliori. O come è accaduto con La cerimonia del fango, può ricordarci l’importanza della solidarietà, della comunità, del non essere ‘contro’ nessuno, soprattutto nei momenti di difficoltà. Durante gli interventi del rito non si è voluto parlare di ciò che non è andato – il cemento, la burocrazia, gli indennizzi mai arrivati – bensì solo di ciò che ha funzionato, ovvero la dignità, la tenacia, la forza, l’unità. Mantenendo un senso di umiltà che è servito a ricordarci che non siamo la specie dominante, bensì una piccola parentesi dentro le lunghissime ere geologiche; proprio come è l’attuale conformazione della Romagna, una terra artificializzata che fino a pochi secoli fa era un’enorme area umida in cui non si distingueva il confine tra la terra e l’acqua. Così era e così ritornerà, e l’alluvione è stata una manifestazione di questo fenomeno. Oggi i cittadini attendono giustamente gli indennizzi arrivati e mai promessi (dei 2 miliardi messi a disposizione dal governo, meno di 200 milioni sono arrivati alle famiglie che hanno perso tutto), ma oltre a ciò sanno di vivere in un territorio molto fragile, dove bisognerà iniziare ad arretrare o adattarsi ad allagamenti sempre più frequenti. Il teatro, quando si fa memoria e comunità, serve anche a ricordarci questo.

Le mani che possono ‘farsi rete’ è un’immagine potentissima e che mette i brividi. Siamo a un anno di distanza dagli ‘angeli del fango’, dalle Romagna mia cantate nelle piazze ma anche dal risentimento di chi il senso della collettività non lo trova più. Come ricorda Laura Orlandini in un bellissimo articolo uscito lo scorso dicembre, la prospettiva storica deve guidarci per ripensare al modo in cui quotidianamente abitiamo le città e le campagne. Se ora l’ambiente sembra volerci scacciare, è utile ripensare allo spirito cooperativistico grazie al quale lo abbiamo un tempo modificato e bonificato affinché ci desse da mangiare e da vivere. Recuperiamo allora quella tensione per modificare il nostro rapporto con il territorio, per evitare queste quotidiane catastrofi, perché quello spirito ha ripreso vigore quando si è trattato di salvare città e paesi dirottando gli allagamenti ma anche svuotando cantine, spalando, pulendo e asciugando, coi sorrisi di fine serata dietro alla chiesa. Se torniamo al teatro, la prospettiva storica ci fa pensare di aver assistito a un evento teatrale epocale nella sua qualità di rito di passaggio, direbbero gli antropologi, capace di accompagnare un’esperienza permettendo a chi l’ha vissuta di raccontarla, per evitare che i solchi della non condivisione rompano ulteriori legami, aprano altre ferite. L’ha fatto dopo un anno, quando la carica emotiva è terminata ma il trauma collettivo non può dirsi assorbito. L’ha fatto attraverso una cornice laboratoriale e quasi assembleare, una delle dimensioni che a pieno titolo dobbiamo riconoscere al teatro, forse quella di cui oggi sentiamo particolare bisogno (“Teatro-in-forma-di-cerchio”, lo chiama Fabrizio Deriu nel bel libro Performare il sociale, a cura Fabrizio Fiaschini, Bulzoni, 2023). E allora da una prospettiva storica non possiamo non pensare alla forma laboratoriale inventata da Grotowski per lo spettacolo Akropolis (1962), dove si elabora scenicamente il campo di sterminio; alle migliaia di persone con lo sguardo sulle torri dopo la strage di Bologna per la Lectura Dantis di Carmelo Bene (1981) e alle collettività coinvolte nel teatro partecipato Antigone delle Città di Baliani/Tognolini (1991). E dovremmo tornare anche alle origini stesse di quella funzione ‘documentaria’ del teatro, nella scientifica trascrizione dei processi di Francoforte de L’istruttoria di Peter Weiss (1965), che sulla pagina si trasfigura in testo quasi poetico, messo in scena da Gigi Dall’Aglio del Teatro Due di Parma nel 1985 e dopo trent’anni ancora in scena. Sono tutti casi, questi, dove il trauma non viene rimosso ma diviene tessera di quel mosaico che può divenire la collettività, grazie all’azione di un teatro che certamente serve per ‘curarci’ ma che inevitabilmente ci riavvicina anche al dolore, qui causato dall’infezione che stiamo alimentando nel mondo. Se vivere è anche fare i conti con il dolore, quanta differenza passa fra il patimento in solitudine e il riconoscerci insieme deboli, impauriti, sofferenti? La cerimonia del fango è stato un dono alla comunità, organizzato senza rispondere a nessun bando specifico, dialogando con tutti ma senza affiliarsi a nessuno. Un teatro in forma di cerchio che ci ricorda quanto immenso sia il potere curativo della collettività, anche se tutti stiamo andando dalla parte opposta.

Dopo avere bruciato la nostra cannarella, dopo il ballo collettivo (il saltarello romagnolo, ballo popolare a coppie nato probabilmente nelle colline che portano alla Toscana, franate drammaticamente un anno fa), le nostre mani in tasca cercano qualcosa che sporge. Si tratta di un altro rotolino che ci eravamo scordati, quelli con le parole dei bambini, l’inizio che dobbiamo reimparare:

L’acqua è spericolata
ogni città allaga.
Il fiume scorre
ogni persona corre.
C’è chi guarda la finestra
e si prepara alla guerra con la balestra.
C’è chi va su sempre più su
e non si preoccupa più.
Una sera smette,
ogni lacrima passa
si fa festa suonando la grancassa.