“Entertainment”: dove tutto è possibile

Intervista al regista Gianni Farina di Letizia Bernazza

Letizia Bernazza | 

Liminateatri | 

18/12/2023

Il prossimo 20 dicembre al Teatro India di Roma nell’ambito della 17esima edizione di Teatri di Vetro Festival – direzione artistica di Roberta Nicolai – Menoventi sarà in scena con Entertainment.
Abbiamo rivolto alcune domande al regista Gianni Farina il quale, insieme a Consuelo Battiston, ha fondato nel 2005 il gruppo stabilitosi qualche anno dopo a Faenza. Menoventi è sicuramente tra le realtà più interessanti della scena contemporanea degli ultimi anni.
La ricerca dell’ensemble faentino è orientata da sempre alla sperimentazione di linguaggi e registri espressivi che si compongono senza «una poetica definita a priori», bensì messa in atto laboriosamente a seconda dei differenti progetti. Di sicuro, tuttavia, intercettando le loro dichiarazioni e partecipando alle loro creazioni «un unico punto fisso» c’è: il pubblico. Agli spettatori si chiede di essere parte attiva, di vivere un’esperienza “reale” e soprattutto di entrare in un “gioco” che invita a spostare lo sguardo, ad accettare di essere “spaesati”, ad attraversare il confine palco-platea.

Sarete a Teatri di Vetro con Entertainment dell’attore, drammaturgo, regista e sceneggiatore polacco di origine russa Ivan Aleksandrovič Vyrypaev. Quale è stata la scelta di confrontarvi con questo testo?

Una serie di rimpalli ha portato il testo a casa Menoventi. Teodoro Bonci del Bene, attore e regista, amico e traduttore di Vyrypaev, è stato tra i primi a leggere Entertainment. Quest’opera bizzarra lo ha sedotto ed ha deciso di tradurlo, pur non avendo intenzione di metterlo in scena; sentiva il desiderio di affidarlo ad altri. Ha così consegnato la prima bozza di traduzione a Tamara Balducci. L’acume del Teodoro regista ha colto nel segno, Tamara si rivelerà una perfetta interprete del personaggio denominato “Lei”.
“Lei” – e già si confondono i ruoli – a sua volta mi ha contattato chiedendomi di leggere l’opera ed è stato amore a prima vista; come mi disse durante la prima telefonata, questa commedia sembra scritta per noi. Ho trovato moltissimi punti di contatto con alcune nostre scritture, da Invisibilmente a Perdere la faccia, per citarne solo un paio. Ho accettato l’invito a curarne la regia senza nessuna esitazione. Poi insieme a Consuelo ho pensato di coinvolgere Francesco Pennacchia per la parte di “Lui”, e direi che non si poteva fare una scelta migliore.

Come avete sviluppato i temi dell’amore e della vita al centro dell’opera di Vyrypaev? Perché in fondo – come si evince dai testi dell’autore – amare e vivere è nel nostro presente, ma anche nel nostro passato o, forse, né l’uno e né l’altro.

Più che sviluppare, abbiamo probabilmente smorzato questa centralità, a partire dal sottotitolo. L’originale recita “una commedia sull’amore dove tutto è possibile”, mentre il nostro spettacolo elimina proprio quel termine: “una commedia in cui tutto è possibile”.
Il testo di Vyrypaev mi ha coinvolto per la sua interrogazione sulla realtà, per la  speculazione filosofica che ci mette di fronte alla vaporosità del nostro “io” e che ci conduce con ironia e intelligenza a ipotizzare che probabilmente “tutto è possibile”.
L’amore resta, è la forza vitale che permette ai protagonisti e agli spettatori di arrivare a queste considerazioni, ma se eliminiamo quella parola dal sottotitolo apriamo la strada ad altre letture.

Quali sono state le scelte di scrittura scenica per entrare in quel “gioco delle parti” che, come evidenziato nella presentazione della vostra messinscena, «(…) viene aperto dall’amore, forza generatrice che unisce i giocatori e confonde gli scenari»?

Non c’è stata scrittura scenica in senso stretto, per la prima volta ho messo in scena un testo fedelmente. A parte qualche taglio, pochissimi per la verità, ho avvertito l’esigenza di non stravolgere nulla… è la prima volta che mi capita, e devo che dire che così facendo ho trovato il mio lavoro semplicissimo. Ho sempre considerato regia e drammaturgia inscindibili e non mi era chiaro come si potessero separare davvero le due cose, ero un po’ spaventato. Scopro l’acqua calda, ma in realtà non lo sento dire mai: la vita del regista che si affida totalmente a un testo, analizzandolo a fondo, certo, ma emancipandosi dalle tentazioni della scrittura, del riadattamento, è infinitamente più semplice.

“Confondere gli scenari” ha il senso di scompaginare, mettere in discussione, ri-definire l’essere degli spettatori che vengono chiamati a prendere parte, “sul serio”, a quanto accade?

Esatto, significa scompaginare i ruoli: dove finisce la sfera di influenza dell’attore e inizia quella del personaggio? Chi e cosa vede lo spettatore? Chi lo sta ri-guardando? Dove è collocata la sua attenzione, a chi è rivolta? Quanto c’è di vero in quello che accade ora sul palco? E in platea?
La confusione dei ruoli è amplificata dalla confusione spaziale, topografica; a differenza delle regie firmate da Vyrypaev, abbiamo deciso di invertire la direzione dello sguardo e le postazioni iniziali di questo gioco delle parti: il pubblico è seduto sul palco, gli attori in platea. Il testo originale esige a mio avviso questa inversione e mi ha sempre stupito che l’autore non l’abbia mai fatto.