Distopie
Walter Porcedda |
gli STATI GENERALI |
12/10/2023
“Odradek”, il titolo dell’ultimo lavoro di Menoventi richiama alla memoria il personaggio del racconto “Il cruccio del padre di famiglia” di Franz Kafka che fa parte della raccolta “Un medico in famiglia”. Wikipedia dice che nel racconto di Kafka l’Odradek è descritto come “un essere con una forma apparentemente priva di senso, anche se completa. L’etimologia del termine è di dubbia provenienza slava o tedesca, in ogni caso non avrebbe significato. Il padre di famiglia racconta che l’Odradek appare e scompare, si trasferisce in altre case e dopo qualche tempo torna nella sua proprietà. A questo essere non possono essere poste domande difficili, e anche se non crea nessun intralcio, il padre di famiglia è addolorato dall’idea che l’Odradek possa sopravvivere dopo la sua dipartita, visto che l’essere, diversamente dagli oggetti, non ha uno scopo e quindi non ha mai usura”.
Descrizione efficace perché in qualche modo coglie una delle peculiarità del racconto minimal ma denso di significato messo in scena dai Menoventi, da un’idea di Consuelo Battiston e Gianni Farina autore anche di drammaturgia, regia e luci, mentre le musiche sono di Andrea Gianessi e le scene di Andrea Montesi e Gianni Farina. Anticipa cioè quella che i Menoventi definiscono come “l’innocenza inconsapevole della vita odierna, ovvero l’incapacità di avvertire il peso della responsabilità del proprio agire”. A volte questa “s’incrina e lascia filtrare i sintomi di un’angoscia singolare, insolita come un’ombra cupa”. Questo è ad esempio “il sentimento di insensatezza della propria esistenza” che si insinua in M. la protagonista femminile della pièce: cioè Consuelo Battiston che, assieme a Francesco Pennacchia, forma
un perfetto duo di attori calati in un surreale tête-à-tête dentro uno dei più intriganti spettacoli della stagione. Un vero guazzabuglio scenico e linguistico che solletica, in una generale situazione di apparente no sense, raffinate riflessioni filosofiche, rimandi e citazioni. Tutto senza perdere il “gancio” con l’attualità. Anzi. La pièce è infatti una formidabile finestra aperta sul distopico che esiste nascosto
nelle trame della nostra società contemporanea. Tutto accade apparentemente con ordine logico: la consegna a casa o anche delivery.
“Odradek” infatti è un marchio come quelli che si sono affermati nei giorni del lockdown: i vari Glovo, Deliveroo e Just Eat, etc.. Consegna a domicilio. Non solo food, ma “portiamo il mondo a casa tua”. Anzi, le consegne precedono gli ordini, indovinando ed esaudendo magari un non espresso desiderio, anche prima che questo venga enunciato e reso pubblico. Così accade pure nell’innamoramento della coppia.
Tutto è inserito in uno schema logico e ripetitivo che inizia con uno squillo di campanello. La casa appunto. Il piccolo flat di M. -un’aria di ragazza anni sessanta con la coda di cavallo e abito curiosamente demodèe, longuette bianco con vistosa cinta rossa- ha le pareti tinte in rosso e blu compatti, un sofà rosso al centro, dove potresti anche essere risucchiato al suo interno, un tavolino e una televisione
orwelliana che trasmette programmi incomprensibili e dialoga come fosse un Grande Fratello. Il campanello suona e alla porta c’è il corriere di Odradek. La lampadina fa partire una sorta di corto circuito per cui si sentono strani rumori provenienti dalla televisione mentre la luce diventa intermittente. Un fatto che si ripete ogni volta che suona il campanello. E’ una girandola di pacchi in arrivo sempre più
grandi e dei quali non si conosce il mittente. Simile a “Gli Universi di Moran” di Vittorio Catani dove ogni passaggio da un universo all’altro è come un attraversamento di specchi. Salvo poi che avvengano slittamenti progressivi nella conoscenza e così nella percezione dello spazio. Accadono così micro rotture come i calici che esplodono all’improvviso o le lampadine che parlano… piccoli e ironici coup de theatre
sulla soglia di una comicità misurata con al fondo l’imbarazzato nervosismo di non comprendere. E’ come stare dentro un labirinto di cui le porte d’uscita appaiono e scompaiono in breve tempo. Quello che si immagina è magari una illusione. O come accade nel romanzo di Philip Dick “Tempo fuori luogo” sono una serie di impercettibili scarti dove il tempo viaggia a velocità variabile. Una condizione che però
provoca qui e là delle falle dove è possibile entrare e uscire. Tempi alterati, l’utopia di una vita e una relazione normale in una serie di affascinanti foto d’ambiente rubate a qualche quadro di Edward Hopper.