L’eternità e un giorno
Alessandro Iachino |
Stratagemmi |
12/08/2020
Certe sono invece le contraddizioni nelle testimonianze, soprattutto tra quella rilasciata da Polonskaja subito dopo la scoperta del cadavere e quella fornita a otto anni di distanza dal fatto: Federica Garavaglia alterna così toni e posture, nel vertiginoso susseguirsi di situazioni temporali che ne fanno ora una piagnucolosa e indecisa attricetta, ora una sfrontata signora borghese. A condurre tanto l’interrogatorio del 1930 quanto l’intervista del 1938 è sempre Consuelo Battiston, volto e voce di algido rigore, apparsa dal futuro remoto nel quale Majakovskij immaginò la vicenda di Banja. Da quello sfortunato dramma – una corrosiva satira del mondo stalinista, funestata da critiche e insuccessi, il cui centro tematico era rappresentato da una macchina del tempo – Battiston è catapultata nel presente di Sansepolcro e negli anni trenta di Mosca: è lei, estranea dal trucco fluo e dall’abito bianco sul quale scorrono traiettorie arancioni rese luminescenti dalle lampade di Wood, ad accompagnare gli spettatori in un’indagine sulla scomparsa del poeta e su un mondo destinato al collasso. La società sovietica è incapace di comprendere la fragilità e il genio di Vladimir, al punto che a risuonare nello spazio del chiostro sono, alle nostre spalle, le risate con cui vennero accolte le intuizioni politiche di Majakovskij, pronunciate cinque giorni prima della morte in una conferenza pubblica e qui affidate alla voce di Mauro Milone.
Al suo corpo, invece, spetta il compito di franare a terra, di crollare ancora e sempre in proscenio, un istante dopo lo sparo, in un re-enactment della morte del poeta che affida all’oggi la sua vita, la sua inattualità. Tuttavia, nel divertissement delle reiterazioni sceniche e verbali, nel vertiginoso andirivieni tra date ed eventi che a tratti sembra comprimere le qualità attoriali del gruppo, i Menoventi non soltanto proiettano nella contemporaneità il magistero di Majakovskij, ma soprattutto proseguono ad agire lungo il crinale che separa l’implosione della trama dal suo dipanarsi, il dispositivo dalla drammaturgia. Se già in Docile il racconto sembrava, pur nel suo criptico sfrangiarsi, limitare o sostituire la dissoluzione della narrazione, con L’incidente è chiuso il conflitto tra linearità della vicenda e sua metamorfosi in ingranaggio trova nuova linfa nel ricorso agli stilemi del noir: le ricostruzioni possibili, potenzialmente infinite, dell’istante della morte; la messa in luce delle aporie nelle testimonianze, condotta con acribia giornalistica; la preminenza scenica affidata al cadavere. E il tempo – gli inciampi e i ritardi, le accelerazioni e le stasi – appare chiaramente come la chiave formale grazie alla quale forzare, una volta ancora, le serrature del teatro. Così da far sembrare vicina, umanissima, la conquista dell’eternità.
Alessandro Iachino -12/08/2020 Stratagemmi
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