La vita agra perenne?

Nadia Cavalera | 

nadiacavalera.it | 

22/01/2014

La scenografia è scarna, essenziale, nettamente divisa in due ambiti: il privato e il pubblico. Scanditi da carte da parati diverse: morbidamente floreale l’una, linearmente razionale l’altra.
A destra un divanetto per l’intervista di rito all’autore con tutte le lusinghe di un mondo vuoto fatuo ma irresistibile col suo profumo al promettente denaro, rappresentato da una donna suadente, volto del diavolo ammaliante di turno.
A sinistra il letto di una stanza in affitto, dove si consumano le speranze di riscatto del protagonista, costretto con la sua compagna a rinunciare al sogno rivoluzionario per mancanza obiettiva di fondi. Con le sue piccole risorse (fa il traduttore) che conta e riconta ma rimangono sempre quelle: poche che gli consentono appena di sopravvivere.
Altro che attentato dimostrativo al pirellone…

Si delinea così netto il fallimento del protagonista (un convincente Angelo Romagnoli), e della sua folle speranza, trasferendosi dalla provincia a Milano, di rivendicare i compagni morti in un incidente di miniera, a causa di meschine speculazioni padronali, che non avevano consentito le necessarie misure di sicurezza.

La vita amara, ingrata per una dignità ampiamente condivisa, lo costringe a subire la sopraffazione soffocante dei potenti, a cominciare dalla sua padrona di casa (una superba Rita Felicetti) di un’invadenza asfissiante che s’insinua anche sotto le lenzuola. Invade tutti gli ambiti. Non dà tregua.

Il protagonista, stremato da una lotta impari, ripiega verso la decisione di ricordare i compagni scrivendo un libro, che lo invischierà sino a firmare un discutibile contratto sociale col diavolo. Ed è lo snaturamento totale..
Da rivoluzionario diventa un borghesuccio come tanti. Troppi.
I padroni sono imbattibili: questa sembra la lezione finale di questa ardua messinscena di “La vita agra” di Luciano Bianciardi. E che con i tempi correnti, dove ci vediamo riciclati i pregiudicati grazie a rottamatori solo di parole, è terribilmente attuale.
Eppure il libro risale agli anni Sessanta. Dunque oltre cinquant’anni passati invano.
Senonché certi toni e scelte musicali tese e sostenute (ad opera di Stefano De Ponti) lasciano preludere ad un cambiamento.
Sarà la solita illusione?

L’operazione liberamente attuata e mixata alle aspirazioni del dottor Faust porta la firma di Gianni Farina e Angelo Romagnoli.

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