Perdere la faccia
Al Piccolo Teatro Mauro Bolognini, Perdere la faccia, secondo appuntamento con la rassegna Teatri di Confine promossa da Fondazione Toscana Spettacolo e Associazione Teatrale Pistoiese.
Daniele Rizzo |
Persinsala |
02/05/2013
È un ingranaggio semplice quello che inaugura la rassegna sul palco del Piccolo Teatro di Pistoia. Essenziale la trama (se così si può chiamare), praticamente assente la componente scenografica, composta da pochissimi elementi (un biglietto – presente più che altro nelle “intenzioni” dei protagonisti; diversi strumenti da festa di compleanno distribuiti agli spettatori; tre attori; una musica/voce fuori campo; e il pubblico, ovviamente, parte attiva a pieno titolo della e nella messa in scena), perfetto il “montaggio” di Gianni Farina, storico regista della compagnia per l’occasione “sostituito” degnamente da un Daniele Ciprì a suo agio nel portare il proprio contributo di grottesca visionarietà. Il termine montaggio (utilizzato anche nelle note di regia) potrebbe trarre in inganno, ma la commistione tra cinema (il sedicente cortometraggio di cui si attende la proiezione) e performance teatrale lo rende più indicato di “impianto drammaturgico”, in particolar modo per il sapiente gioco di “incastri” dei piani di recitazione con cui le sequenze sceniche vengono sviluppate e sovrapposte dal punto di vista narrativo (sempre, se così si può chiamare).
Uno spettacolo che, nella sua esemplare semplicità, rappresenta una riuscita testimonianza di complicatio della molteplicità artistica nell’unità drammaturgica e che riesce a proporre un “modello” capace di affrontare in profondità la questione fondamentale delle “forme” del teatro e del cinema: quella visiva (e, pertanto, legata non tanto al racconto, quanto alla “verità” cui stiamo assistendo e che stiamo vivendo).
Preferendo non svelare le dinamiche in sala, il “clima” della serata può essere raccontato attraverso le affermazioni paradossali con cui Alessandro Miele («in realtà non abbiamo molto da dire», «è un’occasione irripetibile») effettua un sorprendente ribaltamento della celebre legge di Leibniz sull’identità degli indiscernibili (formulazione nella logica formale del principio – ontologico et gnoseologico – di ragione sufficiente, secondo il quale l’esistenza sarebbe possibile solo nella differenza qualitativa e non “numerica”) e le contorte frasi di un bigliettino letto da Consuelo Battiston per spiegare «l’origine del nostro progetto». Affermazioni e frasi che, mescolando parole come «confessione e bugia», rompono – di fatto – il “patto” comunicativo sul quale si regge la dimensione dell’intersoggettività («ciò che si è non lo si può esprimere appunto perché lo si è. Non si può comunicare se non ciò che non siamo») e spezzano la possibilità stessa che possa effettivamente compiersi quella fusione di orizzonti che caratterizza la comprensione. Una distanza tra palco e platea, tra finzione e realtà, resa incolmabile nonostante le incursioni tragicamente comiche e “consolatorie” – attraverso la quarta parete – del personaggio senza nome interpretato da Rita Felicetti.
Se, dal punto di vista scenico, la realtà disforica rappresentata dai Menoventi funziona perfettamente (i tempi di recitazione e lo stacco di registro, ormai ben collaudati, riescono ad accompagnare – e a lasciare – il pubblico in quel percorso bipolare dall’euforico al drammatico al cui interno Alessandro cadrà vittima dell’incontro/scontro con la “concretezza” di Rita, mentre Consuelo, crudele nella sua dolcezza, sarà infelice superstite della propria stessa determinazione), l’unica perplessità della serata potrebbe essere riscontrata nell’immediatezza con cui il “meccanismo” e la sua “direzione” – in assenza di “colpi di scena” – sono “scoperti” e che, attraverso questo spettacolo basato su un equivoco di fondo (la “confusione” tra verità e menzogna, tra spontaneità e convenzionalità), sembra infine domandarci: qual è il posizionamento della nostra identità formale – la faccia, pirandelliana “maschera” – all’interno di queste estremità contraddittorie?
Un dettaglio, probabilmente, da affrontare e affinare per una ricerca artistica ormai solidamente strutturata e – in ogni caso – in grado di analizzare una surrealtà (fatta di stereotipia e passività), nelle cui pieghe – se visti con sincerità – chiunque potrebbe scoprirsi d’esistere.