Dal linguaggio al dispositivo

Sergio Lo Gatto | 

teatro e critica | 

24/07/2012

Al termine di un’intera stagione teatrale impegnata a registrare spazi e grammatiche sceniche, ora che ci si sposta dal proprio ambiente e ci si mescola a nuove platee (approdando in questo caso alla 42esima edizione del Festival di Santarcangelo), proviamo a cogliere l’occasione per un’interrogazione sulle derive espressive che certi gruppi osservano. E sull’efficacia costante che certi codici riescono o non riescono a mantenere. Tentando di proporre un breve, personale e non pretenzioso bilancio, il sistema teatrale di oggi (che per l’ennesima volta ci viene da chiamare bulimico) sembra scegliere con maggiore sicurezza linguaggi che siano immediatamente riconoscibili, adattabili a categorie che pare impossibile riformulare. Di conseguenza, soprattutto se guardiamo ai gruppi che si sono affermati in questi ultimissimi anni, anche le proposte che in quel sistema vorrebbero inserirsi si trovano a puntare su una cifra stilistica forte, che li distingua radicalmente uno dall’altro.

Babilonia Teatri è uno degli esempi più lampanti di un linguaggio dirompente la cui lettura ha da subito costretto a ripensare molti dei canoni, anche quelli meno convenzionali, conformandoli a una nuova idea di essenzialità che faceva a meno quasi di tutto. Quasi, appunto. Perché in Babilonia, ferma restando l’adesione a un codice completamente radicale fatto di assenza di mimesi e anzi composto da una parola sputata in faccia, in un coro unisono senza inflessione alcuna oltre quella ritmica e di assonanza, è sempre stato forte il ricorso a una partitura drammaturgica che, pur nei rigidi schemi dell’invettiva, ha trovato (con fortune alterne) la via per un ragionamento vivo sul contemporaneo. Contemporaneo inteso come una tensione all’instabilità, alla continua criticità, all’anti-storicizzazione. Se passo dopo passo quella teatrografia ha saputo conservare una propria fervente criticità superando anche l’evidente rischio di ripetizione espresso dal codice è probabilmente perché alla base non si è mai estinta la fiamma della riflessione. La morte (o il riciclo) di certi temi o il loro scadere in ammiccamento intellettuale decreterebbero la fine di quel ruvido contenitore stilistico che la contiene: se la sfacciata e provocatoria essenzialità del codice stilistico prendesse il sopravvento sull’urgenza della parola, di quella forza rimarrebbe ben poco.

La comparsa di Quotidiana.com di fronte al grande pubblico della scena nazionale è coincisa con un pressoché immediato fissarsi di una forma. Se la scrittura di Paola Vannoni e Roberto Scappin, davvero eccezionale nell’uso di ironia e sarcasmo sottili e prepotentemente dissacranti, ha saputo inquadrare una realtà riferita attraverso un filtro caustico quasi senza paragoni è anche e soprattutto perché si è unita a una forma, appunto, originale. Il ritmo gelatinoso e subacqueo cui i dialoghi di Vannoni e Scappin si abbandonano passa attraverso una modulazione vocale da sacrestia, i loro sono discorsi da notte fonda, i movimenti schematici, geometrici ed essenziali e le luci che rimandano al bagliore del frigorifero in una cucina buia stanno già definendo un piccolo universo di segni. Nella melassa drammaturgica del loro ultimo Grattati e vinci scivolano e restano appiccicati frammenti di altri spettacoli visti al festival, impastati in una costante deformazione dei codici del ragionamento, una vena di messaggio che pompa sangue pigramente, agendo sempre alla periferia dei concetti. E accade a volte che quella voce sussurrata e il sentimento di totale inanità che ne deriva diventi quasi musica di per sé. A Babilonia le invettive, a Quotidiana le confessioni.

Anche di fronte alla necessità di una cifra stilistica riconoscibile, per certi versi unico passaporto per una cittadinanza nei grandi circuiti, la sfida per i gruppi di oggi è quella di preservare la riflessione e fare in modo che sia essa a raggiungere il pubblico, scavalcando la potenza – a volte innegabile – di un dispositivo. Ecco, questa è la parola che entra in gioco. Un dispositivo è qualcosa che dispone, che organizza ingranaggi in modo che la loro relazione e interazione producano un effetto, un movimento, uno scarto. Un dispositivo è qualcosa che è a servizio di qualcos’altro. Uno degli spettacoli visti a Santarcangelo 2012 è L’uomo della sabbia di Menoventi, scritto da Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele a partire dall’omonimo racconto di E.T.A. Hoffmann. Si tratta di una novella in parte epistolare che racconta la follia di Nataniele, giovane studente universitario rimasto traumatizzato in tenera età dai racconti sul fantomatico Uomo della sabbia. L’ingegnoso dispositivo utilizzato già in precedenza da Menoventi affronta in questo lavoro un compito molto sottile, che nei precedenti due esperimenti non era stato realmente messo in opera: il contatto con una drammaturgia fatta di personaggi e situazioni, di narrazione ed evoluzione di caratteri, una scrittura complessa, interiore, ambigua e (fortunatamente) carica di ironia.

Se in Invisibilmente il gioco, improntato a un’estenuante attesa, si reggeva su un equilibrio estremo tra realtà e finzione e il concetto affrontato sembrava essere quello della distanza tra i termini “spettacolo” e “rappresentazione”, in Perdere la faccia quello stesso ragionamento faceva da trampolino per un salto ancora più estremo in cui la ripetizione, il loop e l’imperfezione sempre nascosta in quel meccanismo componevano, esaurendola, la drammaturgia stessa.
L’uomo della sabbia è definito dalla compagnia un «capriccio alla maniera di Hoffmann». E proprio quel termine, capriccio, serve da chiave per interpretare sia il messaggio del testo, sia quello che apparentemente resta come vero fuoco dell’operazione: il dispositivo, appunto. Battiston, Farina e Miele mescolano tra loro i personaggi presenti nel racconto dello scrittore tedesco ponendoli su un unico piano narrativo fortemente onirico e a loro aggiungono due elementi stranianti: un “meta-personaggio”, Claudio, che attraversa le scene e una iper-dimensione che, sfruttando l’ambientazione teatrale e la presenza del pubblico, si pone come ulteriore specchio di rifrazione moltiplicando i piani spaziotemporali della vicenda e incrociando, in essa, le connessioni dei personaggi in una meccanica reiterazione dei dialoghi. Con grande sapienza strutturale e tecnica, i tre drammaturghi (ché non si può parlare di messinscena né di adattamento) raccolgono insieme le istanze dei due spettacoli precedenti e le fondono insieme nella messinscena di un meccanismo inconscio. Gli elementi tipicamente gotici come la bella Olimpia che non è che un automa e il misterioso Coppelius che è insieme personaggio casuale e architetto dell’intera ossessione, vengono offerti in sembianze completamente squadernate, destrutturati dall’ironia quasi autistica del personaggio di Claudio: questi, in una serrata altalena di buio/luce e di sipari che si aprono e si chiudono, compare via via in diverse scene del dramma, che si ripetono quasi identiche e in cui egli deve rintracciare continuamente la propria funzione. Irresistibile e inquietante è quella sua condizione di anomalia, di eccezione costantemente fuori posto che ricorda la situazione come un deja-vu, senza tuttavia riuscire a collocarvisi dentro come presenza attiva. Con questo complicato gioco Menoventi riesce a mettere in scena l’irrappresentabile. E però a questa vocazione finisce, in parte, per sacrificare i nodi del racconto.

Pur nell’ambito della comunicazione per concetti, la grande sfida lanciata dal gruppo di Faenza mira a orizzontalizzare la ricerca, incastonando gli elementi della drammaturgia di parola e d’attore nei denti di un meccanismo ormai divenuto codice: scavalcato il climax che lo espone apertamente, il dispositivo precipita in una picchiata che accelera il ritmo, finendo forse per esagerare nelle reiterazioni – pur funzionali – e per perdere forza in una svolta didascalica. Tornando alle considerazioni iniziali, nella maturazione di un linguaggio ormai assolutamente peculiare, anche un gruppo così convincente e originale come Menoventi potrebbe andare incontro al rischio di cesellare una forma, rendendola impermeabile al contenuto.

Soprattutto i gruppi più giovani o che comunque solo ora si stanno affacciando alla scena nazionale devono fare i conti con un sistema che sempre di meno può permettersi una progettualità, sempre di meno è in grado di seguire la graduale ed equilibrata evoluzione con cui un linguaggio dovrebbe perfezionare la sua identità di specchio del reale. Non si tratta solo della situazione delle economie pubbliche, di cui ormai fin troppo spesso ci si lamenta, ma anche di certi vizi di gestione che riguardano più in generale l’imprenditoria teatrale e che si ripetono giocoforza, per rispondere a esigenze di sistema – quasi diremmo di mercato – e contro cui non sono sufficienti neppure le opportunità di rete che un’emergenza strutturale come quella odierna dovrebbe favorire. Più la via d’accesso al circuito trans-regionale (ché ancora non esistono i requisiti per usare il termine “nazionale”) si restringe, più difficile diventa per le realtà della scena costruire poetica e missione artistica proprie che siano indipendenti dalle logiche di eccellenza generazionale, di appartenenza culturale, di novità del linguaggio e di originalità delle tematiche. Tutte categorie che andrebbero ripensate, arricchite o che gli artisti e soprattutto gli operatori dovrebbe quantomeno avere il coraggio di mescolare tra loro.