La vita agra del dottor F

Daniele Rizzo | 

teatro.persinsala | 

15/03/2014

Con una produzione firmata dal centro teatrale La Corte Ospitale, riparte la stagione dell’Angelo Mai, spazio nuovamente Occupato e sempre crocevia di momenti artisticamente interessanti.

La compagnia Menoventi è ormai una solida realtà del panorama artistico italiano. Votata alla frantumazione del senso comune attraverso la messa in ridicolo della sua banalità e al disvelamento della drammatica disumanizzazione di ogni aspirazione all’oggettività (che i massmedia per primi incarnano), i ragazzi di Faenza hanno ormai strutturato una propria weltanschauung tanto raffinata quanto coinvolgente. E, nonostante riferimenti culturali possenti da Bergson a Foucault fino ad arrivare a Beckett nel campo più squisitamente teatrale, la loro ricerca è finora sfuggita alla deriva nell’intellettualismo.
Forti di cotanta virtù, li ritroviamo all’Angelo Mai Altrove Occupato con Angelo Romagnoli per la seconda produzione del Progetto Bianciardi, promosso dallo stesso attore toscano e da Raffaella Ilari: La vita agra del dottor F. liberamente ispirato al best seller di Luciano Bianciardi. Una produzione, che, a onor del vero, nonostante veda la presenza di gran parte della compagnia (cast, direzione, musiche), è proprio del duo Farina/Romagnoli.

Un incontro felice quello tra la solidità drammaturgica e la consapevolezza registica di Farina e il talento interpretativo di Angelo Romagnoli, potenziato dal positivo contributo musicale di Stefano de Ponti e della giovane attrice Claudia Pinzauti.
Tutta la narrazione rispecchia la fabula di Vita agra, soprattutto per la connotazione psicologica del nevrotico protagonista, tanto determinato nei propri intenti rivoluzionari (per vendicare quarantatre minatori che persero la vita nella strage della miniera di Ribolla del 1954) quanto sedato dall’annunciato benessere che miracolosamente stava iniziando a investire la società.
Non si fatica, insomma, a riscontrare anche in questa trasposizione una sostanziale aderenza alla dimensione autobiografica dell’autore. Segnato dalla tragedia di Ribolla si trasferì a Milano e lavorò come traduttore per necessità e insofferenza nei confronti dello showbiz, egli, difatti, riversò la propria malinconica rabbia proprio nelle pagine di quel romanzo.
Se alcune limature al testo, come alla lunga citazione testuale sulla narrativa integrale, sembrano opportune perché non necessarie a potenziare quel senso di surreale visionarietà che alla messinscena viene già attribuito da interpretazioni e una direzione estremamente solide, è in modo particolare un sapiente dosaggio di luci, musiche e di cambi di scena a permettere di non confondere mai gli spazi reali e onirici su cui si sviluppano le dinamiche tra i tre personaggi.

Impressiona, specialmente, il concepimento drammaturgico con la collocazione delle vicende all’interno del celebre Faust goethiano, con – ad esempio – la fatidica vendita dell’anima «firmando un ambiguo Contratto sociale» per cui «il rivoluzionario si integra e accetta le regole del vivere comune, rifugiandosi tra le braccia del sonno e le gambe della sua compagna».
Il realismo venato di ironico disincanto del romanzo originario – e della straordinaria versione cinematografica di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi nella parte del protagonista – cede il posto a una soprendente rivisitazione posta a confine tra mistico e profano, che lascia incerta sia l’ambientazione che l’identificazione degli stessi personaggi.
Non sappiamo, infatti, fino a che punto abbia senso distinguere i dui assatanati (non usiamo a caso il termine) personaggi di una ispirata Rita Felicetti, mefistofelica conduttrice televisiva e padrona di casa. Tantomeno risultano univoche le interpretazione dell’intreccio (cosa stia accadendo e, soprattutto, quando) tra ricordo e sogno, tra aspettative e disillusioni, tra vendetta e rassegnazione.

Nonostante il potente approccio teorico e la notevole realizzazione estetica, l’allestimento – specchiandosi in una indubbia capacità di giocare con il linguaggio sia a livello verbale che visivo – azzarda però il rischio di un eccesso che abbiamo già riscontrato in Perdere la faccia. Ovvero di mettere in atto un percorso di ricerca che, più che andare al di là dello spettacolo, proceda nonostante esso, non salvaguardando un patrimonio testuale e culturale che, soprattutto in un caso come questo, intenderebbe testimoniare.
Uno spettacolo, comunque figlio legittimo di sperimentazione e concretezza, curiosità e maturità, che – accanto a una prova superba per lucidità e ideazione drammaturgica – rischia di esporre il processo creativo al pericolo di una sostanziale pesantezza.
Fragilità, non strutturali, che, probabilmente e fortunatamente, vista la qualità dei protagonisti della serata, non si caratterizzano come criticità, ma segnano il solco per ulteriori e fecondi sviluppi.

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