W.I.P., un viaggio nel retrobottega delle arti

Giuliana Fasolo | 

Les Flaneurs.it | 

09/03/2013

«Sprechiamo un po’ di tempo insieme, concediamoci questo lusso», con queste parole giovedì 7 marzo al Cinema Palazzo, Roberta Nicolai, regista teatrale e direttrice artistica di Teatri di Vetro, ha aperto in qualità di moderatrice il primo appuntamento del progetto W.I.P. Work in Process, una serie di iniziative dedicate ai linguaggi della contemporaneità aperte al pubblico ma rivolte in primis agli studenti tirocinanti di Filosofia e di Storia dell’Arte e dello Spettacolo dell’Università di Roma La Sapienza. Il progetto – promosso da Teatri di Vetro, festival delle arti sceniche contemporanee, con la collaborazione di Pensieri di Cartapesta e C.Re.S.Co. Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea – nasce dal desiderio di «riprendersi il tempo dello scambio» e di andare a curiosare nel «retrobottega delle arti» della scena contemporanea. L’idea di W.I.P. è infatti quella di mostrare gli strumenti metodologici e gli obiettivi delle ricerche degli artisti sulle possibilità del linguaggio a studenti, professori universitari, critici, teorici dell’arte e semplici curiosi.

A schiudere per primo le porte della propria officina creativa è Gianni Farina della compagnia teatrale Menoventi, gruppo nato nel 2001 dall’incontro tra Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele. «Cosa chiede la scena di Menoventi al pubblico delle sue rappresentazioni?», chiede Roberta Nicolai al rappresentante della compagnia.

Nello spazio antistante le gradinate del Cinema Palazzo, specie di caverna urbana ritagliata dal bagliore di lampadine spioventi, il pubblico si è diviso spontaneamente in due file parallele. In mezzo a queste, tra i due fuochi di una scrivania e di uno schermo da proiezione, Farina ha introdotto l’uditorio nel meccanismo compositivo della macchina teatrale di Menoventi, alimentata dalla letteratura di E. T. A. Hoffmann, dal cinema di David Lynch, dalle visioni di M. C. Escher e dal genio intuitivo di Douglas Hofstadter. Come nei racconti di Hoffmann, il teatro di Menoventi chiede allo spettatore di perdersi, di spaesarsi nell’oscillazione, nello sfondamento e nella sovrapposizione delle cornici rappresentative. Metateatro, certamente, vissuto da Menoventi più come l’obiettivo del proprio fare teatro che come un presupposto scontato: la meta ambita, insomma, e l’impulso per camminare.

Si ha subito la sensazione che un teatro di questo tipo, così attento ai diversi livelli diegetici, abbia uno speciale riguardo per il punto di vista dello spettatore. Cosa c’è alla base del patto finzionale? Cosa sa lo spettatore? Che cosa ignora? Queste sono alcune delle domande che caratterizzano l’ingranaggio creativo di Menoventi. Cosciente che la storia del teatro è una storia di convenzioni, Menoventi sceglie di giocare con quelle convenzioni, mandando in cortocircuito i livelli esperienziali dell’attore, del personaggio e dello spettatore.

È così che un personaggio de L’uomo della sabbia, ultimo lavoro direttamente ispirato al Sandmann di Hoffmann, agisce e reagisce alla rappresentazione con lo stesso tempo dello spettatore, sorprendendosi per i flash-back degli altri personaggi con lo stupore e lo spaesamento che un teatro di pura convenzione tenderebbe piuttosto a nascondere.

«Non è rispettando le cornici e le convenzioni», chiosa Nicolai alla fine dell’intervento di Farina, «che si tiene conto del pubblico, ma è togliendogli la terra sotto i piedi che gli si dà parola e possibilità di scelta».

Tra gli astanti, nel frattempo, sono corse parole come «paradosso» e «grottesco»: quest’ultima, spesso usata nell’accezione di “caricaturale” – sottolinea il prof. Ciancarella, storico del teatro – è la possibilità di conciliare l’inconciliabile, di riunire nella stessa forma ciò che di consueto è distante, l’umano e il bestiale, l’animato e l’inanimato. Come nel teatro di Mejerchol’d – altro debitore di Hoffmann – come nei quadri di Magritte, come nell’esoterismo pitagorico. Come nei sogni.

Su queste considerazioni Farina lascia la parola a Davide Valenti, artista visivo e autore, tra l’altro, di Mafia, un altro mondo. Prima pubblicità del male, un progetto che oltre a una mostra personale svoltasi alla Galleria Placentia Arte, si è concretizzato in incursioni radiofoniche, atti di pirateria pubblicitaria sui muri di Piacenza e Favara e vandalismo giornalistico sulle pagine di una delle più importanti testate nazionali. In Mafia, un altro mondo il messaggio della mafia come fonte di ricchezza e protezione convive con i più triti stilemi giornalistici e pubblicitari. Nonché con l’ambiguità di una campagna pubblicitaria commissionata direttamente dall’associazione malavitosa.

«È stato superato il limite della rappresentazione che costantemente chiede di essere superata». Per Valenti è questo l’obiettivo del fare arte nella contemporaneità. Superare i limiti della rappresentazione sembra voler dire riconoscere lo stesso credito a tutte le dimensioni dell’esperienza umana e dare loro la possibilità di contaminarsi. Perchè «la teoria non ci cambia, l’esperienza sì» e nell’esperienza umana convivono i fatti più disparati.

Come nel teatro di Menoventi la creazione si attua nell’incontro e nella deflagrazione delle cornici rappresentative (personaggio – attore – spettatore), anche nel linguaggio di Valenti si intuisce la volontà di sovvertire i contesti del fare e fruire arte. La rappresentazione ambisce a farsi vita mentre la vita si svela come rappresentazione.
Dalla teoria alla pratica: Valenti ci parla dei suoi esperimenti con i sogni lucidi svelandone all’uditorio la tecnica. Ci chiede: «Quanti qui credono che i sogni siano reali e non una produzione della mente?». Qualche mano alzata, i più restano ad ascoltare il seguito. Viene fuori che la maggior parte di noi dà troppo credito alla realtà della veglia e trascura le possibilità conoscitive del sogno mentre a livello neuronale esse semplicemente si equivalgono.

È l’ora dei saluti. Sono passate quasi tre ore dall’inizio dell’incontro e nella caverna la luce delle lampadine nude pare moltiplicata dalle suggestioni di chi è stato ad ascoltare. Chi non ha fatto domande le ha annotate su pezzi di carta. Le file si scompongono. È il momento disordinato delle chiacchiere in piccoli gruppi. Raggiungo Roberta Nicolai e mi complimento per l’iniziativa. Sorridendo mi risponde: «Io so una cosa, tu ne sai un’altra, ciascuno possiede una conoscenza ma se non ci incontriamo restiamo tutti su un ramo morto».