Il declino del teatro? Una riflessione da B.Motion 2023
Sergio Lo Gatto |
Teatro e Critica |
29/08/2023
Per Operaestate Festival Veneto / B.Motion 2023 a Bassano del Grappa abbiamo visto Odradek di Menoventi e Enrico IV – una commedia della Piccola Compagnia della Magnolia. Una doppia riflessione, che allaccia il dibattito del Corriere della Sera sul «declino culturale del teatro».
Su la Lettura del Corriere della Sera dell’11 giugno 2023 veniva pubblicato il testo “Il declino culturale del teatro italiano”, a firma di Franco Cordelli, uno dei decani della critica nostrana. L’articolo esprimeva un deciso malessere nei confronti della scena contemporanea, agli occhi del critico vittima di un’applicazione fallimentare di quasi tutti i possibili strumenti, da una tecnologia ridotta a trucchetto per scongiurare la noia, fino a certe regie pompose (e però ritenute goffe) alle prese con classici che non si saprebbe più come vivificare o a nuove grafie reputate non certo all’altezza dei modelli. Tempo due settimane e le colonne dell’inserto culturale hanno ospitato le firme più disparate, tra figure artistiche, di direzione artistica e di programmazione, incaricate di portare avanti un dibattito che, nell’opinione di chi scrive queste righe, risulta del tutto fuori tempo massimo.
L’impressione è che la ghigliottina di Cordelli piombi a tagliare certe teste al cui corpo non viene concesso sufficiente rigore analitico. Fuor di metafora, appare pretestuoso e non sano andare oggi a discutere della liceità di questa o quella soluzione di linguaggio, di una o l’altra tradizione da rispettare, rinnegare o rinnovare, senza rendere solida quella discussione con un’attenta disamina delle peculiarità produttive e distributive che rendono eterogeneo (e sì, certo, problematico) l’attuale ecosistema teatro.
Se certi interventi successivi ne hanno approfittato per una più o meno dichiarata e spesso autoindulgente promozione di intenti programmatici, va detto che altri – come quelli di Stefano Curti o Andrea De Rosa, di Fabrizio Grifasi e di Claudio Longhi, di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari o Matteo Negri – hanno provato a creare un contesto realista e consapevole dei processi per una discussione inizialmente rimessa al tribunale dei risultati. Deriva, quest’ultima, che appare oggi tenacemente aggrappata a una visione novecentesca, in cui era ancora possibile valutare guardando ai due principali sistemi di creazione, quello “ufficiale” degli stabili e quello “controculturale” spinto dai nervi guizzanti del “nuovo teatro”.
Mentre, già dalla passata stagione, si è osservato il rassicurante ritorno in platea di un pubblico più numeroso e forse anche più diversificato, sarebbe d’aiuto valorizzare almeno la vitalità e l’imprevedibilità di un simile ambiente di relazioni e riconoscere con rispetto la capacità del teatro di forgiare, contro la propria incipiente marginalità rispetto all’orizzonte culturale, un’arma efficace quale la pressoché totale libertà espressiva, davvero impossibile da trovare in arti e pratiche creative dominate dal mercato.
È con questo spirito, allora, che ci siamo concessi due giornate a Bassano del Grappa per B.Motion, la sezione dedicata ai linguaggi del contemporaneo dal festival Operaestate Festival Veneto, per il primo anno curata con ottime idee da Michele Mele insieme alla storica direzione di Rosa Scapin. E proprio qui abbiamo assistito, tra gli altri e nella felice programmazione di un’unica serata, a due esperimenti apparentemente antitetici e in vero capaci di dimostrare quanto scritto qualche riga più su.
Odradek è il più recente lavoro di Menoventi, compagnia che nel 2025 compirà vent’anni di attività, alla seconda replica dopo il debutto nella loro città d’origine per Ravenna Festival 2023. Ironia e intelligenza analitica, unite a una sapiente attenzione per il ritmo scenico e una recitazione dimessa ma precisa, hanno fatto di Menoventi una macchina di ragionamento unica sui limiti della rappresentazione, che ha spaziato da drammaturgie originali a nuovi scenari con tracce d’ispirazione in altre grafie, fino a un chirurgico gioco di demolizione dei pilastri narrativi in grado di spiazzare completamente lo spettatore, intrappolato dal proprio stesso immaginario e deprivato dei cliché.
In un colorato interno dal sapore espressionista, M. (Consuelo Battiston) vive una realtà anestetizzata dalla ripetizione, un’ucronia à la Black Mirror in cui il maggior provider di servizi (Odradek, appunto, una sorta di Grande Fratello) è giunto a prevedere i desideri dei consumatori, confezionandoli in prodotti consegnati a casa. Nella sua routine piomba il rider Q. (Francesco Pennacchia), fantasma di una possibile relazione “in presenza”, che dovrà vedersela con lo strapotere dell’intelligenza artificiale. In questo irresistibile apologo – che, tra azioni e battute reiterate e squarci di ironia surreale, porta i segni tipici di Menoventi – la regia e la drammaturgia di Gianni Farina guidano due infallibili interpreti in un ragionamento sull’apatia della nostra “civiltà delle macchine”.
Questo sofisticato labirinto di rimandi di intertestualità esterna riporta all’Odradek di Franz Kafka (paradossale creatura parassita di forma geometrica incapace di rispondere a domande complesse) e alla profezia di Günther Anders (pure studioso di Kafka), il quale già negli anni Sessanta, ne L’uomo è antiquato, postulava la sindrome di “vergogna prometeica”, una straniante condizione di asincronia tra l’agire umano e la rapida spinta cognitiva imposta delle macchine da esso create. Il risultato è una piccola gemma di speculazione socio-filosofica che brilla grazie all’impiego di un artigianato eminentemente teatrale. In risposta alle lamentele sulla poca inventiva del nostro teatro, da quasi vent’anni Menoventi porta avanti una rigorosa disciplina della sottrazione che ci ricorda come oggi certo teatro dei gruppi sappia difendersi dalla bulimia produttiva componendo un repertorio di visioni. Tentativo dopo tentativo, il collettivo ravennate mette a fuoco una felice mescolanza di osservazione antropologica e costruzione drammaturgica in grado di guidarci tenendoci per mano e però scavandoci la pelle fino a indurre un fastidioso solletico ai nervi.
[…]Tra gli anatemi di Franco Cordelli, uno era lanciato alla «ridondanza [di certi allestimenti] rispetto al significato trasmesso dal drammaturgo», un altro alla tendenza a rendere tutto «“contemporaneo”», cioè «la triste abitudine di ritenere vecchio, ossia incomprensibile, ciò che è solo antico, ovvero scritto qualche anno fa». Quanto a «ciò che viene scritto oggi» il collega stigmatizza giustamente la formula delle «poche repliche e via per sempre», e cioè il problema della circuitazione che, nell’epoca delle cordate coproduttive tra grandi centri, appare insormontabile; e però Cordelli sostiene che di inefficaci scritture dell’oggi siano «inutilmente pieni festival e rassegne».
Menoventi ha lavorato su E.T.A. Hoffman e su Majakovskij, ma soprattutto aggrega e rimpasta in nuove forme del dire e del fare scenico elementi delle nostre percezioni e conversazioni intellettuali, così come la Piccola Compagnia della Magnolia ha lavorato sui classici e su Borges e si avvia a un terzo capitolo del progetto con Sinisi, su Cenci tra Shelley e Artaud. I due percorsi che abbiamo raccontato qui sono una delle tante prove che la creazione indipendente ha molto da insegnare al nostro sguardo; sono risultati che non temono di mostrare a nudo i processi, sfidando l’aporia di un amore per il teatro che non sappia apprezzarne la ribellione agli schemi, che scambi i lunghi cicli della creazione per il declino di quel che forse non è più attuale limitarsi ad attendere seduti in poltrona.