I Menoventi in uno studio fra follia e ferinita’

Semiramis - primo studio

Lucia Cominoli | 

Altrevelocità | 

10/06/2007


Iniziamo con Semiramis. Com’è nata l’idea e la scelta di ispirarsi a questa figura?

Gianni Farina: A dire il vero la partenza è stato un caso, come spesso accade, nata leggendo l’opera di Calderòn, La figlia dell’aria. Qui inizialmente, ci siamo focalizzati sulla parola “potere”, che si fonde molto bene con il tema della libertà, di cui ora si parla. L’opera di Calderòn affronta questa figura di ambizione e di potere in modo diverso dal solito, con una forza che ho ritrovato solo nel Caligola di Camus.
Consuelo Battiston: Oltre che in Macbeth, a cui molto in questo lavoro ci siamo ispirati.
Gianni: In Calderòn la visione dell’ambizione è un equilibrio precario che ci pone in bilico tra il giustificare alcune azioni e scelte che questa figura fa e il condannare queste stesse scelte. Leggendo il testo non riuscivo realmente a prendere parte, non sapevo se condannarla o assolverla, e questo mi ha portato a una rivelazione rispetto a una concezione del potere che di solito viene percepita come negativa. Mi ritorna ora in mente la frase di Dürenmatt, che abbiamo inserito nell’opuscolo: «E siccome il mondo ha fatto di me una puttana, adesso io ne faccio un casino». È cioè sempre possibile comprendere delle scelte nello stesso momento in cui si condannano. Semiramis è un personaggio davvero molto complesso, che ci ha fatto riflettere sulla questione della molteplicità, innanzitutto della sua molteplicità, e sul tema del doppio, anche se questa figura non è un doppio, ma è un quintuplo. Calderòn dipinge Semiramis come una fiera razionale ed è proprio intorno a questo, a questa definizione, che è iniziato il lavoro e così la costruzione del personaggio per Consuelo. Leggendo Bataille e Agamben, ho poi approfondito il tema del doppio. Esiste una stretta connessione tra il sovrano e l’uomo lupo antecedente la ius civile. L’animale è antecedente al sovrano. È un tema che stiamo investigando e su cui c’è ancora molto da capire. Abbiamo preso il lupo come riferimento per costruire il personaggio, quando non sapevamo come “friggerla”, non tagliarla ma proprio friggerla. È la base del personaggio. Successivamente, amando Enzensberger, scoprimmo solo dopo un mese del suo confronto con Calderòn, una conferma ulteriore della sua influenza nel nostro percorso, seppure qui tornato in maniera totalmente diversa. Ecco, questo per dare il motivo concreto. Motivo più nobile e meno concreto è stato invece il fatto che la figura poteva essere una sfida interessante per Consuelo, oltre che un modo di crescere e di provare una cosa completamente diversa dal lavoro precedente. Mentre leggevo Calderòn comunque, la vedevo assolutamente nel suo volto.

È lecito, in Semiramis, parlare di follia?

Consuelo: Io credo che in realtà tutto dipenda dalla partenza dall’animale. Quello che può sembrare folle è semplicemente un comportamento che non sottosta a regole, come un feto appena nato. Semiramis è un animale che si muove in rigidità con un desiderio molto forte ed è prima di tutto corpo, un corpo molto rigido e all’erta.
Gianni: Preferirei non usare il termine follia ma parlerei piuttosto di un desiderio estremo, corollario a un isolamento altrettanto estremo. Il luogo originario del dramma era una grotta ma quando siamo venuti qui, durante il sopralluogo, di grotte chiaramente non ce n’erano e abbiamo dovuto adeguarci. La grotta era per noi l’emblema dell’isolamento, la discesa negli inferi e nella profondità della persona. Inevitabilmente ora le piastrelle hanno posto il richiamo al manicomio e quindi alla follia. In un altro luogo, tuttavia, probabilmente sarebbe risaltato di più l’elemento animale.

Come avete lavorato a questa costruzione?

Consuelo: Come approccio al lavoro pratico, prima di soffermarmi sulle singole improvvisazioni, mi sono concentrata sulle qualità di movimento che quella persona avrebbe potuto possedere. Piccole pagliuzze, gesti, un preciso modo di camminare, di appoggiarsi sui piedi, di indicare o ancora l’uso degli occhi.
Gianni: Si tratta per noi di qualcosa di nuovo. Il lavoro precedente era costruire una figurina, non un personaggio. Qui ci siamo rapportati a un testo con un lavoro di tipo più tradizionale, che ormai non fa più nessuno. Lo studio sull’attore è stata una sfida e la volontà era quella di arrivare a un lavoro che fosse diverso dal precedente.

Dopo In festa, la critica ha visto in voi dei debitori di Ionesco e del teatro dell’assurdo. Vi ritrovate in questa definizione?

Gianni: Di Ionesco sì, dell’assurdo no. Si tratta piuttosto di un tentativo di definizione, c’è una macchina, un ingranaggio, una macchina che non ha bisogno di calore per funzionare.
Consuelo: A me piace fare l’esempio della mela. Una mela ha una sua forma, la nostra mela ha una piccola gobba al suo centro. Cerchiamo una trasfigurazione della realtà che può far porre un interrogativo allo spettatore sulla realtà stessa.

La realtà contemporanea è assurda?

Gianni: La realtà contemporanea è totalmente assurda e sembra normale. Sembra molto lontana dall’uomo e l’interrogativo shopenaueriano lo vedo oggi ancora più importante. La realtà si distingue dalla percezione? Mi sembra che oggi la percezione dell’uomo sia già molto lontana anche da una realtà velata.

Tornando a Semiramis, mi è sembrato di scorgere nel suo atteggiamento una certa tensione ironica, è effettivamente così? L’ironia può essere considerata teatralmente utile?

Gianni: In realtà credo che nella seconda replica questo sia venuto a mancare, benché fosse nella volontà iniziale. L’ironia è per noi una cifra importante, per quello che sappiamo fare, non credo tuttavia che sia fondamentale nello spettacolo di chiunque. L’ironia è come affermare una cosa e subito dopo smorzarla e negarla.
Consuelo: È un portare e un togliere, portare e togliere.
Gianni: L’ironia a cui mi riferisco si esprime tramite il meccanismo e l’artificio. In Semiramis ci siamo concentrati su un’ironia mimica, abbiamo pensato a suggestioni nuove, come l’Espressionismo tedesco e Metropolis, a cui ho ripensato molto per il lavoro su Consuelo.
Consuelo: Per me c’è anche la voglia di prendersi in giro.
Gianni: Sì e poi l’ironia, come la mimica, passa senza mediazione teoretica e facilmente raggiunge chiunque. È un aspetto a cui teniamo. Alessandro, che in questo lavoro non è coinvolto direttamente, definiva lo spettacolo precedente «surreal-popolare», a segnalare l’importanza dell’aspetto popolare. Lo stesso vale per il lavoro sul personaggio di Consuelo, sono due cose che possono essere comprese nella direzione del popolare. Le scritte sul muro e il substrato del lavoro certo non sono popolari, ma abbiamo cercato in tutti i modi di restituire questo aspetto instaurando una relazione emotiva con il pubblico. Lo spettacolo precedente poteva essere definito assurdo e freddo, gli elementi comici e l’ironia erano meccanica, ingranaggi, una questione di calcolo preciso e di gesti riproducibili. Il rapporto emotivo è invece più rischioso. L’ingranaggio calcolato al millimetro funziona…
Consuelo: Se non si inceppa. Il rapporto emotivo credo sia più suscettibile al cambiamento di spazio, se non c’è. Cambia ogni sera, pur non modificando niente di sostanziale. Ogni giorno c’è una piccola rettifica e modifica. Questo spazio per esempio è stata l’occasione di poter lavorare con un riscontro.
Gianni: Anche perché in questi giorni, attenzione, non si replica ma si lavora.
Consuelo: Ed è inoltre un’opportunità per una compagnia fuori sede come la nostra.

Si è parlato di popolare, possiamo riconoscere al termine una sfumatura politica? L’arte oggi, può ancora avere questa valenza?

Gianni: No, io credo non possa esistere. Bisogna porsi degli interrogativi ma non tentare di convincere qualcuno. Chi va a vedere un teatro di un certo tipo, già la pensa in un certo modo. È rischiosissimo tentare di far passare un’idea politica per una questione prima di tutto linguaggio. Esponendola con chiarezza, non convinci nessuno. Si rischia di incorrere nel documentario e difficilmente, penso, il documentario può cambiare l’idea di una persona. Provare ad arrivare a un linguaggio diverso è la scommessa. Fai fatica a “dire una cosa” allo spettatore, puoi riuscire al massimo a indurlo a degli interrogativi ma non a dargli una risposta. Sarebbe totalmente inutile.

In Semiramis entra in campo anche la violenza.

Gianni: Sì, in connessione con il tema della libertà, tema che ho ritrovato anche nel Caligola di Camus. La deprivazione dei sensi cui è sottoposta Semiramis è una forma di violenza che le dà l’idea che l’unico modo per raggiungere una certa forma di libertà sia l’utilizzo della violenza stessa. La libertà di cui godeva l’uomo antecedente la ius civile era la possibilità incondizionata di scatenare i propri impeti. Proprio in questi giorni ho incrociato la definizione sul vocabolario: violenza è la forza incontrollata che distrugge, priva di controllo, istintivamente. Per chi è nato con violenza, questa rimane la prima immediata forma di libertà. La vera violenza, in Semiramis, è nel non poter seguire il proprio destino. È il concetto di libertà ellenica quello a cui facciamo riferimento, il diritto di seguire il proprio destino.
Consuelo: C’è anche del fascino in tutto questo. Spesso mi sono chiesta, in fondo, chi non vorrebbe essere come lei? Le persone che non agiscono come lei, molte volte non lo fanno per mancanza di forza, di coraggio. Semiramis è una figura pericolosissima di cui parlare. Preclude ogni tipo di relazione. Semiramis sarà sempre sola, e la solitudine può aumentare la violenza stessa, rendendola una libertà priva di gioia.
Gianni: Enzensberg parlava della condizione del politico moderno come una condizione di deprivazione di sensi. Un individuo bendato, costretto all’interno di un cilindro pieno di un liquido, privato di luce, annientato nel tatto come nell’olfatto. È la stessa condizione di Semiramis. L’isolamento totale, che può provocare una reazione, che nell’isolamento del manicomio vive una situazione di “ospedalismo”, che può provocare allucinazioni. Quello che Semiramis vive in questo quarto d’ora, d’altra parte, non è altro che un’allucinazione.

I Menoventi sono nati da una serie d’incontri personali e suggestionati dall’incontro con altri artisti. Tra questi non possiamo non ricordare quello con Marco Martinelli ed Ermanna Montanari al laboratorio “Epidemie”. Pensate che il loro approccio abbia influenzato il vostro percorso?

Gianni: È una domanda che ci pongono spesso. Direi di sì, anche se in parte, e soprattutto da Marco, è soltanto da un punto di vista metodologico. Cerchiamo infatti di stare molto attenti, di imitatori delle Albe ce ne sono già abbastanza. È giusto ricevere delle influenze ma queste devono essere applicate alla tua sensibilità e il risultato deve essere diverso. Martinelli non è un ricettario è un consigliere.
Consuelo: Un’esperienza comunque intensa, abbiamo imparato a vivere la replica e lo spettatore. Ci ha insegnato a capire cosa vuol dire la capacità di ripetizione: cercare ogni volta di ricreare lo stato zero.

I Menoventi sono Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele. La compagnia nasce dall’incontro tra Gianni e Consuelo, a Santarcangelo nell’autunno 2001, durante il progetto Zampanò, organizzato da ERT e Santarcangelo dei Teatri. Uniti da comune sentire teatrale, i due collaborano all’organizzazione di laboratori per le scuole, seminari e spettacoli, fino alla scoperta di Alessandro, nel novembre 2003, all’interno del corso di formazione Epidemie, guidato Marco Martinelli e Ermanna Montari per CEE, ERT e Ravenna Teatro e debuttare con le Albe in Salmagundi, nel luglio 2004. Ma sarà In festa, nel 2006, lo spettacolo che, tra le suggestioni di Ionesco, De Chirico e Radiohead, li lancerà come emergenti. I laboratori La Cantantrice Calva e La balza (ancora in fase progettuale), sono, con Semiramis, gli ultimi lavori della compagnia. Compagnia anomala, quella dei Menoventi, che vuole definirsi lontana da precisa poetica quanto da ruoli. Menoventi è un dato, una temperatura. Che sia fredda, freddissima, poco importa, basta andare a casa e guardare il termometro al contrario. Oppure mettere sottosopra la realtà.