Nient’altro che un gioco

Gianni Farina | 

Lo Straniero n°141 | 

01/03/2012

Credo che una buona dose di incoscienza sia alla base di tutti i nostri lavori, e non potrebbe essere altrimenti dal momento che la coscienza stessa è il bersaglio di ogni nostra fatica.
Il tema del controllo, della manipolazione e soprattutto della consapevolezza di questi tentacoli invisibili sono un chiodo fisso che ci punzecchia fin dal primo spettacolo, In festa.
In questo lavoro c’è un semaforo a dettare tempi, stati d’animo e azioni alle figurine in scena. La massima aspirazione di quel progetto consiste forse nel suscitare un senso di smarrimento all’avvento della tanto attesa luce verde.

Passa il tempo ma Orwell è sempre in agguato, a ricordarci costantemente che, fino al momento dell’uscita definitiva da questo sistema cognitivo, la nostra percezione della realtà sarà solo un effetto ottico, l’ennesimo spettacolo – di dubbia qualità tra l’altro – che è iniziato con l’ipertrofia della coscienza – autocoscienza tiene a precisare Nietzsche – la quale ha lasciato in eredità all’uomo la capacità di mentire, di farsi manipolare, di poter scegliere una linea evolutiva rapidissima e fatale a scapito di un lento abbandono alle derive del casuale.
Vogliamo sperare però, vuoi per presunzione, vuoi per sospetto ottimismo, che l’uscita dal sistema, l’uscita dal teatro sia non solo possibile, ma direi quasi alla nostra portata.

Semiramis è il secondo progetto, che si focalizza sul presunto vertice della piramide sociale, per scoprire in realtà che tale vertice non esiste. “Pietà per i politici” scrive Enzensberger, perché sono le vittime sacrificali di questa commedia della coscienza; non c’è nessun pastore per questo “gregge”, il manipolatore non esiste; è questa la condizione veramente ridicola: siamo condizionati costantemente ma non esiste nessun burattinaio se non l’umanità nel suo insieme. Ecco dunque la regina assira che si ribella al suo stesso dominio e che finisce per morire – dal ridere ovviamente – alla vista del proprio impero.
Qui c’è un primo tentativo di inclusione del pubblico all’interno della cornice teatrale; l’impero che fino a un attimo prima si credeva popolato da ombre, da morti, da presenze evocate dalla magia del teatro, non è per niente magico, non è assolutamente fittizio e non è una convenzione della nobile arte che tutto può. Il regno è ovviamente la platea, che prende coscienza del proprio ruolo solo nel momento in cui viene apostrofata.

Questa è la cifra che da allora abbiamo cercato di coltivare con più rigore, cercando di spingere l’evento teatrale sempre più vicino alla tua sedia, benevolo lettore. Ecco, l’ho proposto anche qui, ti ho chiamato in causa direttamente, mio benevolo in sommo grado, prometto di non farlo più.
Questo vizietto, che consiste appunto nel ribadire che lo spettacolo ri-guarda lo spettatore, lo contempla, lo prevede come elemento determinante e determinato, è il punto centrale del tentativo di creare una frattura nei contesti dell’esperienza teatrale in primo luogo, che cerca però di allargarsi il più possibile per lasciare traccia nel quotidiano abitare la socialità.
L’improvviso scarto contestuale, la rottura costante delle cornici e l’infrazione delle regole del gioco mette in discussione il ruolo del giocatore-spettatore, che rischia di perdere traccia dei confini fra questi contesti e, non sapendo più dove collocarsi, deve reinventarsi un ruolo per continuare a giocare.
Questo complesso meccanismo non è una nostra invenzione ovviamente, c’è chi sostiene che fosse il giochino preferito da Epimenide e che il Paradosso sia il naturale sviluppo verbale di questo alternativo modo di pensare alla realtà, cioè pensarla come a un labirinto di contesti in cui “far finta di” essere qualcuno in tutte le situazioni, plasmare una nuova identità per ogni cambio di inquadratura, far finta di vivere insomma.

InvisibilMente si fonda su una trappola simile: ridere delle disgrazie altrui in quanto testimoni di un qui e ora evidentemente artificiale, per scoprire però di essere inclusi nel sistema, essere determinati da uno spettacolo il cui scopo principale è quello di prevedere le reazioni del pubblico e di palesarle a grandi lettere su uno schermo apparentemente onnisciente.

Postilla tenta invece di costruire una cornice estremamente solida e la richiesta fatta allo spettatore è molto alta (c’è quindi chi non accetta i termini del gioco e rifiuta l’ingresso): vendere la propria anima al Diavolo in cambio della visione di uno spettacolo. Come autori, non siamo in grado di ideare una performance equiparabile alla generosa scelta di chi accetta e firma; niente può eguagliare la buona volontà dello spettatore determinato a tutto pur di assistere all’evento, quindi la scelta stessa diventa lo spettacolo e il tour infernale si conclude con la rappresentazione dell’atto di firmare questo maledetto patto. Il contratto scenico, la cornice più ingombrante che ci sia, diviene la scena madre dello spettacolo.

L’Uomo della sabbia mira invece a mutare e smontare continuamente l’inquadratura, come fa lo stesso Hoffmann del resto, traducendo in linguaggio scenico il gioco che l’autore tedesco propone in tutte le sue opere, il gioco cioè con i propri strumenti, quelli della scrittura. L’esempio del vizietto riportato prima è farina del suo sacco, non del mio; è lui che apostrofa repentinamente il “benevolo lettore” sbalzandolo fuori dalla narrazione in cui era immerso. Non è Brecht, che nega l’accesso, che non sospende l’incredulità; Hoffmann ti fa entrare e uscire continuamente dall’opera e alla fine, inevitabilmente, il lettore sovrappone i piani e disorientato accetta la confusione tra mondo interno e mondo esterno. Principio Serapiontico lo chiamava Hoffmann, Magritte invece lo battezza La condizione umana.

Termino con Perdere la faccia per cercare di chiudere il cerchio sulla questione inerente al nostro lavoro che più mi sta a cuore, e che abbiamo tentato di approfondire maggiormente: gli scarti contestuali e il ruolo dello spettatore. Questa ricerca pone un grosso ostacolo al nostro lavoro: la cornice di partenza è sempre la stessa, il Teatro. L’ospite entra in sala e non può far altro che fruire dell’opera, l’inquadratura è sempre la medesima, sia essa fisicamente costituita dagli stucchi di un arcoscenico barocco, sia dal metallo impolverato di un locale underground. Qui, ogni volta, sta per avere luogo una rappresentazione dichiarata.
La scommessa, vinta per pochi secondi soltanto, consiste nel partire da un’altra situazione – evitando la deriva situazionista possibilmente – e dare un’altra prospettiva alla prima inquadratura. Lasciar scorrere la prima scena (l’unica scena, in qualche modo) come se teatro non fosse. Per fare questo, abbiamo forzato la rappresentazione in modo tale da farla diventare un inganno. La finzione teatrale diviene manipolazione mediatica. In altre parole, si è reso necessario fornire informazioni false al pubblico. Qui si ritorna al punto di partenza del presente scritto; la mistificazione chiude il cerchio del controllo e del condizionamento, è la punta dell’iceberg che fa leva sulla limitazione cognitiva intrinseca all’uomo e sull’assegnazione forzata di un ruolo, di un’identità.

Con un modestissimo tributo alla Morante e al coraggiosissimo glottologo Gabriele Costa, concludo chiedendomi se Epimenide, a differenza di noialtri, rinchiuso con pochi intimi nell’oscurità di una grotta, non cercasse di svelare il mistero più misterioso di tutti i misteri misteriosissimi, incitando:
“Dentro e fuori, ragazzi, tutto qui. Io non sono singolare, io sono più ruoli che possono esistere contemporaneamente. Forza, provate a inquadrare il mondo da tutte le prospettive possibili in un colpo solo, forza. Pitagora, calmati, perché gridi tanto!? Quel problemino di geometria, in sostanza e verità, non è nient’altro che un gioco!”.

http://www.lostraniero.net/archivio-2012/137-marzo-2012-n-141/724-n-141-marzo-2012.html