Bianciardi, Kafka e FaustBianciardi, Kafka e FaustBianciardi, Kafka e Faust

Angelo Romagnoli e Gianni Farina portano in scena Vita agra del dottor F. tratto dall’opera di Luciano Bianciardi

Simone Nebbia | 

Teatro e Critica | 

14/03/2014

La vita agra. Il titolo di una delle opere più importanti del secondo Novecento italiano, tale forse proprio per la sua almeno apparente ingenuità, ha in carico l’eredità gravosa di sostenere la memoria del suo autore, Luciano Bianciardi, scrittore fra i meno celebrati in vita e che l’epoca contemporanea sta riscoprendo sia per il suo stile, agile ma al tempo stesso brulicante e colto, sia pure per la forza depositaria delle trattazioni. C’è, in questo titolo, gran parte dell’esperienza che lo stesso Bianciardi avvertì nelle sue giornate di immigrato in terra milanese, la fatica paradossale del dover sezionare la grandiosità del lavoro culturale in tante piccole particelle economiche, anzi economizzanti, perché pagassero una vita di piaceri recintati, amori a orari stabiliti, cambiali di cambiali, parcellizzazioni del costo per stare al mondo, assilli di date cardinali per la scadenza che si portano, l’unica ricorrenza plausibile per l’uomo contemporaneo. Insomma, tutto ciò che agli inizi degli anni Sessanta (il libro uscirà nel 1962) era frutto della nascente e ormai per noi categorica alienazione, affrontata però con innato ricorso all’ironia e disincanto per una vita, appunto, così agra.

Quando Angelo Romagnoli, attore e traduttore, operatore teatrale tout court, iniziò a lavorare su un Progetto Bianciardi, partì dal punto più insolito per giungere solo a fine percorso tra le pagine del suo capolavoro. Non leggete i libri, fateveli raccontare, risalente al 2012, fu un primo importante passaggio non solo per afferrare e dunque imporre la figura dell’intellettuale grossetano, ma anche per indirizzare verso uno smaliziato umorismo il suo lascito all’epoca attuale. Allora si partì da un convegno abbastanza inconsueto, molto per così dire bianciardiano: i convenuti intervennero non tanto su approfondimenti teorici e filosofeggianti, ma come omaggio e dedizione al segno che Bianciardi tracciò nella loro esperienza culturale. Ma il lavoro su quell’appendice dileggiante uscita su rivista e raccolta solo a posteriori (ora rintracciabile nell’opera completa Antimeridiano di ISBN Edizioni, 2005), costruita come un decalogo di beffardi consigli al giovane intellettuale che voglia farsi strada con ogni mezzo in questo ambito, già in sé portava in nuce l’obiettivo primario, La vita agra che ne è compimento in minore ma insieme sa farsi affresco della società del tempo, rintracciando le crepe del quotidiano in un’epoca di crescita metropolitana. Al suo fianco, Romagnoli ha scelto però non uno sguardo complice di disegni letterari, ma un artista come Gianni Farina della compagnia faentina Menoventi, in questo caso regista “di contrasto” per una creazione ulteriore.

In una atmosfera polverosa d’interni anni Sessanta, nella sala dell’Angelo Mai Altrove Occupato di Roma, in abiti un po’ lisi (da segnalare gli ottimi costumi di Marco Caboni) e con attorno tristi carte da parati, Romagnoli entra nella scena e nel personaggio dell’autore. C’è una Olivetti sul letto, un fosco lampadario d’epoca che si proietta sinistro sulla carta da parati, c’è un divano dove una compiacente giornalista – Rita Felicetti – inizia a intervistarlo. Vita agra del dottor F, titolo dello spettacolo, riferisce una sensazione che rimanda a Kafka, rintracciando allo stesso tempo quanto, di tale sensazione, tradusse un altro grande scrittore, di poco precedente, Dino Buzzati, autore della metafora più astringente attorno al lavoro culturale con Il deserto dei Tartari (1940). Lo scrittore risponde per quel che può, si bea della sua opera, del suo progetto di «narrativa integrale» e gongola di fronte alla golosità della giornalista, ma dietro di sé, dov’è quel letto completo di una macchina da scrivere, lo attende il richiamo alla fatica assieme alla sua compagna, Anna (Claudia Pinzauti), che lo aiuta in questa traduzione del Faust di Goethe e, come si diceva un tempo, a tenere insieme il pranzo con la cena. Al suo fianco il lavoro si condensa con l’amore e con un progetto rivoluzionario, terroristico, cui i due sono impossibilitati dalle condizioni economiche: «Ma lo sai oggi quanto costa il tritolo? Non abbiamo abbastanza soldi per fare la rivoluzione…».

Gianni Farina muove le sue pedine in una scena che, pur meritoria di maggior cura, sa delineare da uno spazio realistico una concezione metaforica, competendo ad esso la risonanza dell’azione con l’azzeccatissima scelta di far doppiare e amplificare ogni gesto da una sonorità off. Grazie a questi segni drammaturgici smarriti nello spettacolo, con cui dialogano gli sguardi e le parole degli attori, Farina si muove in un ibrido tra interpretazione e creazione pura, forse perdendo un po’ la bussola in una parte finale non perfettamente inquadrata, ma riuscendo nell’impresa di riportare in uno stato di densità una grande opera inaridita dai suoi stessi contenuti, come disperdendola di spore.

La trasformazione dell’elemento biografico, già tema dello stesso Bianciardi, si carica qui di un riferimento al Faust, il cui Mefistofele, la giornalista e padrona di casa, è carceriere dell’anima s-venduta per pochi denari in cambio di «venti cartelle al giorno», inchiodando così la sua attività intellettuale alla produzione seriale, quindi svergognando l’intima essenza della stessa. Il “contratto sociale” che l’autore firma con, appunto, il suo “diavolo”, non è per sé stesso ma per la società che rappresenta, asservita all’affannato sviluppo e privata invece della naturale evoluzione al progresso: «debbo difendermi e sopravvivere», dichiara l’autore nello spettacolo, recuperando così la sua anima che per qualche bolletta, o sigaretta o tritolo per la rivoluzione, aveva lasciato in pegno.